Alla ricerca di un Signore dominatore, ragione di tutte le cose, molti filosofi per sciogliere il mistero hanno fatto riferimento al concetto di monade immersa nella solitudine della sua potenza infinita. Gesù, invece, nel parlare di Dio ricorre a termini familiari come affetto, Padre e Figlio che abbracciano e si abbracciano, Spirito come vita che riprende a respirare quando è accolta. Egli fa sempre riferimento ad una relazione, ad un legame di amore. Grazie alla sua rivelazione i cristiani credono che Dio è in sé relazione per cui dire Dio è dire Trinità e così affermare che Egli é Amore.
L’immagine di Dio, non nella solitudine dell’individuo, e l’umanità riconciliata e così una pur nelle sua diversità, sono state lo spunto di riflessione della scorsa domenica, festa della Trinità, alla quale ci si rivolge in ogni azione liturgica, anzi in ogni azione che inizia col segno della croce, esplicita sua evocazione.
In Occidente si è sentito il bisogno di una festa per consentire alla comunità di fare una riflessione teologico-dogmatica, occasione di lode, di ringraziamento, di adorazione del mistero che esalta la comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Si tratta del mistero della fede che, come il sole, fa perdere la prospettiva se si pretende di fissarlo direttamente; invece, se si procede ad una umile riflessione, aiutata dalla fede, consente di illuminare tutta la vita approfondendo l’idea di Dio.
La Trinità indica una vita di amore plurale, comunitario. Quando con le parole si tenta di descriverlo il risultato è poco efficace rispetto ad un mistero che rimane ineffabile. Ancora oggi l’intuizione di Agostino, che fa riferimento al Padre Amante, al Figlio Amato e allo Spirito Amore tra i due, si rivela il tentativo di spiegazione più adeguato, riassunto da san Bernardo con la poetica espressione del bacio circolare ed eterno. Esso ha trovato riscontro plastico e pittorico nella famosa Icona russa di Andrej Rublev, il monaco figlio spirituale di San Sergio.
Il passo del Vangelo letto domenica presenta Gesù impegnato in un faticoso dialogo con Nicodemo, uomo di fede che però ha difficoltà a cogliere la portata dell’annuncio del Maestro di Nazaret, il quale asserisce che amare non è un sentimento, un emozionarsi ed intenerirsi, ma la disponibilità a dare e darsi con generosità, senza se e senza ma. Infatti, “Dio ha tanto amato da dare il suo Figlio”, affermazione di fondo per spiegare il motivo dell’Incarnazione ed il fondamento della Salvezza.
Per conoscere l’amore di Dio per il mondo è necessario coglierne l’epifania databile nella storia personale di Gesù, che duemila anni fa muore sulla croce “avendo amato fino alla fine”. L’ora della croce è l’ora di Gesù, la manifestazione della sua gloria perché è l’ora dell’innalzamento del Figlio, dono gratuito di sé, che l’umanità è chiamata ad accogliere con fede. Dio ha voluto diventare uomo per condividere la nostra esistenza, la lotta quotidiana, la sete di vita eterna. Gesù lo ha fatto e così ha salvato il mondo dall’unico grande peccato: il disamore, scelta che spiega la croce e l’esperienza della Pasqua.
La relazione espressa in questo modo è la legge costitutiva della vita che riflette lo scambio d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: Amore dell’Io che si proietta nell’essere del Tu per costruire insieme il Noi Trinitario grazie allo Spirito Santo, che unisce l’Io del Padre ed il Tu del Figlio. Dio ama non solo gli uomini, ma il mondo intero perché la vita fiorisca in tutte le sue forme. Allora, davanti alla Trinità, anche se ci sentiamo piccoli, siamo invitati a percepire il grande abbraccio nel vortice del vento carezzevole dell’Amore. E se Dio si riflette in Cristo, la Chiesa consente ai fedeli di divenire immagine di Dio perché membri del medesimo Corpo mistico. Perciò, l’amore costituisce la dinamica presente in ogni famiglia o comunità nel momento che realizza e si percepisce come un Noi. Allora diventa icona di Dio Trinità e così raggiunge la sua perfezione nella globalità dell’universale famiglia umana.
Il nostro cuore è specchio e senso ultimo dell’universo nel legame di comunione; quindi essere salvati significa passare dalla morte alla vita definitiva, possibilità per chi accetta questo dono, rispetto al quale all’uomo rimane la libertà di scelta. Chi non lo accoglie si giudica da se stesso perché l’unica opzione possibile è entrare nella Vita oppure allontanarsi dalla sua sorgente. Quindi, la festa della scorsa domenica non è stato un invito a speculare sul mistero, ma una opportunità corale per fare esperienza di Dio della sua plurale comunione. Se ogni singolo uomo esiste a immagine e somiglianza della Trinità, allora il racconto di Dio è anche narrazione dell’uomo, non un dogma che impone di credere ad una fredda dottrina, ma generosa esperienza della sapienza del vivere in quanto, come il Cuore di Dio, anche quello dell’uomo è relazione. Ecco perché la solitudine pesa e fa paura: è contro natura; mentre quando si ama e si condivide l’amicizia ci si sente beati.