In questi giorni anche nel Cilento è scoppiata la polemica per l’arrivo di un gruppo di richiedenti asilo, opportunità economica per privati, manifestazione di ottusa intolleranza di chi è preoccupato che extracomunitari in paese possano turbare la pace e l’armonia della comunità. È diventata anche occasione di confronto tra fazioni che amministrano il municipio con i sindaci in difficoltà e le opposizioni pronte a cavalcare la tigre della contestazione per un po’ di strumentale visibilità. Il partito del «No», molto più rumoroso, non intende ragioni pur se la riconosciuta labilità sociale di tanti piccoli centri minaccia di farli scomparire, evenienza già capitata nei secoli passati a causa di guerre e carestie. Altri, invece, intravedono nell’arrivo degli extracomunitari una opportunità per consolidare il tessuto sociale colpito da gravissima denatalità e privo di forza-lavoro per attività produttive soprattutto nel settore agricolo. L’intransigenza dei più s’intruppa dietro lo slogan “prima gli italiani” ritenendo che gli immigrati abbiano poca voglia di lavorare. Motivazioni apparentemente più articolate e artatamente fondate su dati pseudoscientifici fanno paventare il rischio di una sostituzione etnica dimenticando che la popolazione cilentana è il risultato di un millenario meticciato.
La situazione è complessa, ma forse occorrerebbe riflettere su dinamiche più generali partendo da alcune considerazioni circa i fatti registratisi nella settimana appena trascorsa: la strage di ragazzini a Manchester, i riti del G7, soprattutto l’incontro Francesco-Trump.
In questi anni il fattore R è strumentalizzato per giustificare un casus belli inaccettabile, mentre tanti illusi, psicolabili ed etero-diretti, non esitano a farsi saltare in aria per troncare atrocemente con la propria altre giovani vite. Il dramma di Manchester ha fatto da cornice al primo viaggio di Trump fuori degli Stati Uniti, un tragitto che ha riconosciuto l’importanza della religione in un XXI secolo ipertecnologico, sempre più teso a fare dell’uomo il centro dell’universo, stimolando una hybris che non riesce a velare la disperata condizione di dipendenza, che fa schiavi i più ed aggrava i problemi per il futuro dell’umanità. Le tappe possono apparire anche una sorta di viaggio alle radici delle tre religioni monoteiste per ribadire che solo una vera intesa può assicurare benessere a tutti. L’approdo a Roma ha concluso questo peregrinare che per molti aspetti ha smentito o rivisto rutilanti propositi sbandierati durante la campagna elettorale dello scorso anno per accalappiarsi la “pancia” affamata e dolorante della democrazia a stelle e strisce. Il primo piano di un presidente col sorriso di circostanza stampato sul viso a beneficio di fotografi ed agenzie e il volto corrucciato del pontefice hanno rimarcato anche plasticamente la distanza tra i due.
Se i simboli hanno un valore, persino la scelta di utilizzare lo spagnolo e non l’inglese per comunicare con l’uomo più potente della terra la dice lunga circa le preferenze di chi è venuto dalla fine del mondo. Nella civiltà dell’immagine vedere un papa marciare nell’abbraccio con i popoli in utilitaria e Trump fendere la folla assiepata sigillato nel macchinone potentissimo e fornito di gadget per prevenire ogni tipo di attentati confermano i motivi della popolarità di chi si sente ed opera identificandosi col fratello che gli passa a fianco rispetto a chi è abituato a vivere in una turris eburnea dove l’oro delle pareti attutisce il grido di dolore che viene dalla strada. Il colloquio privato, durato pochissimo in rapporto ai problemi che avrebbero dovuto affrontare, non induce a grandi speranze, ma almeno si sono guardati negli occhi prima di lasciarsi, l’uno pronto ad immergersi in un altro bagno di folla bisognosa di un padre in Piazza S. Pietro, l’altro per confrontarsi con i colori e la plasticità delle icone di Michelangelo meditando, si spera, su un giudizio universale che dovrebbe smuovere i cuori anche dei più insensibili.
In effetti, a meno di un miracolo, non ci si poteva attendere molto. Francesco ritiene prioritario bloccare i signori della guerra ponendo fine all’escalation degli armamenti; Trump è pronto ad aprire la borsa per nuovi acquisti, compiaciuto per l’efficienza della macchina bellica del suo paese. Già su questo punto si pongono agli antipodi in uno scenario geopolitico che li vede operare in modo diverso. Per il Medio Oriente, ad esempio, Francesco ipotizza una lungimirante strategia che non trova riscontro in vecchie prassi di Washington rispetto a Mosca e agli ayatollah iraniani. La Casa Bianca non ha ancora trovato il modo per trattare con i re sauditi e l’uomo forte di Ankara, che ambisce divenire “sultano”, e convincerli ad aprirsi all’esigenza di una maggiore integrazione culturale e democratica nel rispetto delle peculiarità migliori delle rispettive civiltà. Nel Medio Oriente l’azione della Sede Apostolica è volta innanzitutto a proteggere i cristiani e sconfiggere Daesh; inoltre si è impegnata a ricucire con la Umma, priorità emersa in Egitto col dialogo interreligioso per consolidare l’intesa tra antiche civiltà, contro il demone di una globalizzazione prona al mercato e poco disposta al riequilibro sollecitato da una diffusa propensione a difendere un pacifico glocal. Città martoriate – come Damasco, Gaza, Bagdad – e regioni dai confini contesi – come Palestina, Iraq, Siria – alimentano la guerra mondiale a pezzi e Washington ancora interviene in queste crisi con strumenti e stili dal sapore stantio della guerra fredda mentre cerca di accreditare una impegnativa e costosissima egemonia che, a lungo andare, può indebolire pericolosamente la repubblica. A dividere pontefice e presidente sono anche le posizioni circa un responsabile comportamento, rispettoso dell’ecologia del pianeta e non condizionato dal mero interesse per una crescita del PIL, opzione quantitativa pagata duramente in termini di qualità della vita. Né da meno sono le distanze che li separano circa l’economia, rispettosa dell’uomo nella sua concezione integrale per il papa, prona solo agli interessi finanziari e di accumulazione di ricchezza per pochi secondo l’esperienza del tycoon inquilino della Casa Bianca.
Netto è il contrasto circa il modo di confrontarsi con l’epocale fenomeno delle migrazioni: accoglienza incondizionata frutto di un ottimistica generosità contro una chiusura indifferente alle esigenze primarie dell’altro perché la paura spinge a chiudersi nell’apparente gioia di una abbondanza non condivisa. Quest’ultimo tema coinvolge anche tanti paesini cilentani, tutti testimoni dei grandi e tormentati flussi migratoria della propria popolazione quando la povertà estrema spingeva a partire per sfuggire alla fame. In quelle circostanze hanno trovato un rifiuto nonni ed antenati di coloro che oggi gridano No alla presenza di uomini e donne nel bisogno?
Ponti e muri rispondono a motivi diversi di progettazione tesi a risolvere eventuali problemi della vita, ma lungo la via di Gerico, metafora della storia umana, soltanto un solido ponte, costruito rispondendo alla logica della responsabilità, della condivisione e della giustizia, può garantire al progresso umano di continuare il suo viaggio.