Pubblico qui di seguito schegge di ricordi di vita e d’amore tratti prevalentemente dal mio romanzo autobiografico LETTERA ALLA MADRE, che pubblicai alcuni anni fa e che ebbe un discreto successo di critica e di pubblico, fu adottato come libro di lettura nelle scuole e vinse numerosi ed importanti premi letterari in giro per L’Italia. Lo faccio per testimoniare soprattutto a me stesso ma anche ai tanti miei lettori che il mio amore/interesse per il territorio di Capaccio Paestum ha radici antiche e profonde. E mi sembra giusto e doveroso farlo in questo periodo di campagna elettorale nella speranza/ambizione legittima che mi leggano in molti, elettori e candidati, e vi dedichino più di una riflessione. Spero tanto che lo facciano soprattutto i giovani, che quel periodo non hanno vissuto per una panoramica anche serapida su “Come eravamo”.
… Fu meraviglia quel viale di cipressi che cercavano il cielo a figa dalla Porta Sirena della città antica. Ero abituato alle querce fronzute dalla larga chioma dove mi arrampicavo a perfido saccheggio di nidi, agli ombrelli degli ulivi, che speso mi conciliavano il sonno/sogno in attesa che tu ultimassi i lavori dei campi, ai ciliegi lustri di tronco e foglie, che mi regalavano schiocche di frutti succosi, con cui spesso mi ingioiellavo gli orecchi. E tu ridevi di soddisfazione ed orgoglio, bella e statuaria nelle fattezze di madre e dea. Ma i cipressi, no. E non mi furono simpatici. E lasciai cadere con fastidio le bacche appiccicose, che pure avevo raccolto per curiosità. Fu una liberazione quell’apertura a perdita di orizzonte prima del rifugio nella bella chiesa paleocristiana…
… Da don Peppe Torre era lunga ed afosa la giornata ai margini dei campi all’ombra avara di un pinastro dove mi raggiungevi con le altre donne per la mezzora di sosta a mezzogiorno a consumare un boccone di pane stento ed un sorso d’acqua, che avevamo portato da Trentinara. Quella della Piana era pesante sempre, malsana spesso. E per ingannare le ore di attesa mi interrogavo sui mille perché del territorio che dalla pianura trasmigrava alle colline con i paesi disseminati sui crinali. E mi colpiva quella chiesa solitaria su un avamposto di montagna a dominio di pianura e mare. Mi ci avevi portato in pellegrinaggio a maggio con i profumi della campagna in fiore, E qualche volta mi intristivo in sommessa preghiera:”Madonna del Granato, conservami sana la mamma! Fa che papà torni presto dalla prigionia!” E dialogavo con un merlo che mi teneva compagnia e con il quale dividevo la mia porzione di pane duro quando e se riuscivo a sbriciolarlo. Lui calava in picchiata svolazzante per ritornare soddisfatto sul ramo malfermo del prunastro.
… Gromola mi diventò familiare da quando cominciasti a portarmi con te sul posto del lavoro, un po’ per non lasciarmi da solo in paese, un po’ per cautelarti da eventuali insinuazione a cui era esposta, quei tempi, una donna giovane e piacente con il marito lontano da anni… Oggi ci torno spesso per ragioni di studio al Museo Narrante, alla Masseria Preculiali. E quasi sempre mi ritorna in mente la tracotanza del fattore che ti faceva lasciare i pomodori, uno o due chili non più, che avevi raccolto nel fazzoletto a provvista dì insalata per la sera. Gridava come un ossesso ingiuriandoti nel consueto controllo di fine lavoro. E pretendeva di ispezionarti finanche il seno se non mi fosse scattata la molla della ribellione a minacciargli di spaccargli la testa con una pietra raccolta con rapida destrezza nel fossato. Me ne ricordai quando, alcuni anni dopo, con la testa piena di sogni e di ideali i giustizia, di uguaglianza e libertà ebbi. proprio nella piana, il mio battesimo alla vita politica. E gridai con tanti”Pane e lavoro! Terra non guerra!”, ritornello di lotta che diede il via alla Riforma Agraria.
… Il Tempone è una balconata verde su valle e pianura, passeggiata lenta e sosta di riposo per quanti, a tutela di orgoglio di identità, sono rimasti ne vecchio capoluogo, ad argine della migrazione biblica verso il mare e guardano con disincanto sempre, con disappunto, qualche volta, il meticciato della Piana con i parvenus dai portafogli gonfi di affari nell’agricoltura e nel turismo. A me accende nostalgia di festa di Sant’Antonio con banda, luminarie e fuochi d’artificio e lo sbafo di torrone, nocciolate e zucchero filato alle bancarelle colorate a conclusione della devozionale “tredicina” nella bella chiesa del convento che, bambino, mi ferì di stupore con l’ampio chiostro a giocare a girotondo sul pozzo di pietra. La festa anticipava la “stagione” con gli uomini a conquista della paglia bianca e le donne a caccia di sblusate leggere sulle bancarelle della fiera accorsata. Più su Palumbo registrò le fasi evolutive di quelli della mia generazione nei clic lampeggianti e svaporanti delle vecchie macchine fotografiche… E nella mia passeggiata “ra lu Tempone a lo capostrata”, come consiglia il vecchio canto popolare, a viaggio a ritroso di memoria, m’è compagna solo l’eco dei passi lenti sull’asfalto e /o sull’acciottolato. E fa ressa alle porte del cuore e della mente un esercito d’ombre che reclamano vita:principi e baroni, vescovi e padri guardiani, nobili reazionari ed eroi rivoluzionari, professionisti ed artigiani ed i mille sudati mestieri di un popolo senza lavoro sena terra fino all’assalto dei latifondi e conseguente riforma agraria che, nello spazio di un decennio, rivoluzionò costume economia e vita di un territorio più di quanto non l’avessero fatto tutti i secoli precedenti messi insieme…