La sanità non se la passa bene in Campania e sta peggio nel Cilento. Da noi si scarica maggiormente il disagio per le 12mila unità che mancano negli organici; per i tagli lineari dei “ragionieri” nei Lea (livelli essenziali di assistenza); e nell’indifferenza dei più all’annunciata chiusura di ospedali e presidi di soccorso che non smuovono più di tanto sindaci, pubblici amministratori e la solita evocata ma inesistente società civile. Eppure gli effetti cominciano a vedersi e non possono più essere coperti dagli storytelling alla moda della convegnistica e dei comunicati stampa che ancora “saziano” una classe politica e amministrativa che, pur sapendo bene di essere transeunte, il meglio o il peggio di sé lo trae nell’accumulo e nella dissipazione di risorse dall’evidente fine autoconservativo. Inutili anche gli scongiuri e le preghiere. Chi è capace di togliersi il prosciutto dagli occhi, la realtà la vede. E si spaventa. “Nel Cilento della dieta mediterranea c’è una maggiore mortalità per tumore che nel resto della Campania”, la provocazione della coraggiosa collega napoletana anticamorra Luciana Esposito sembra avere colto nel segno perché nessuna replica è arrivata dalle fonti istituzionali alle sue denunce che appaiono solo sul suo personale sito d’informazione, www.napolitan.it . Cosa dice? “I dati forniti dagli istituti di ricerca parlano chiaro: dal 2010, nel Parco Nazionale del Cilento, si registra una notevole ed ascendente incidenza del tasso tumorale. Tumore è una parola che fa paura e che inevitabilmente fa a cazzotti con l’orgoglio Cilentano, quello che disdegna “le critiche” e recepisce di buon grado solo “i numeri buoni”. Quelli legati al turismo, in primis”. Fin qui la scudisciata di Luciana Esposito. Mentre mi accingo a rifletterci su scrivendone faccio un salto in un negozio del mio paese che pure è ritenuto salutare e ubertoso. Ed è giusto ai margini del Cilento e della stessa Piana del Sele. “Mondi” che teniamo ai confini, quasi alla stessa distanza. Un amico mi snocciola una lista impressionante di miei compaesani, tutti al di sotto dei sessant’anni, che convivono e combattono con diverse patologie tumorali. Non siamo nel cratere della “terra dei fuochi”, qualche scarico di veleni c’è stato (spesso nella forma di cocktail di bucce di pomodoro mescolate ad altre schifezze) ma non nelle quantità tali da avvelenare interi territori come è avvenuto nel casertano. Costi economici e forme di organizzazione della sanità non prevedono una significativa azione di prevenzione dal rischio; gli stessi servizi di sorveglianza ambientale fino ad ieri ubbidivano più alla logica di “spaventare/troncare/dissuadere”. Qualche anni fa terreni “sequestrati” dai vigili urbani per la presenza di scarichi sul suolo furono restituiti ai proprietari dopo le analisi dell’Arpac. Torno a Luciana Esposito: “In alcune aree del Parco Nazionale del Cilento, l’incidenza dei tumori risulta addirittura doppia rispetto ad aree metropolitane certamente più industrializzate e maggiormente esposte a fattori inquinanti del salernitano. In sostanza, ci si ammala e si muore di tumore più a Vallo della Lucania e Sapri che non a Battipaglia ed Eboli. I dati citati sono […] relativi ad uno studio condotto nel 2014, condotto da 168 medici distribuiti in settanta comuni salernitani da Battipaglia a Sapri, e che avevano in carico 200 mila assistiti, hanno messo a disposizione i propri archivi, fornendo il numero dei pazienti che si ammalano e che muoiono di tumore. Lo studio sottolinea che i distretti sanitari maggiormente a rischio sono quello di Vallo della Lucania e Sapri. Quindi nel cuore del Parco e lungo la fascia costiera. I dati sono stati rilevati su un campione significativo di assistiti (circa il 50% dell’intera popolazione residente) aggregati per Distretto sanitario. Le informazioni raccolte arrivano degli archivi dei medici di base, e sono certamente più completi dei dati ospedalieri…”. È possibile lasciare cadere così queste sue considerazioni? E magari non collocarli a un “abbassamento della guardia”? Se sono infondate, tre righe per dirlo e rassicurare gran male non sarebbe…
ALLARMISMI INUTILI?
Resto nel mio paese, perché i familiari di Giovanna Reina, 63 anni, hanno denunciato l’ospedale di Roccadaspide che si recò al Pronto Soccorso dell’ospedale per fitte all’addome. Il medico che la visitò, all’interno del nosocomio, la rassicurò dicendo che era tutto a posto e che poteva tornare a casa. Ma come racconta il quotidiano Il Mattino, ciò non avvenne. La signora Giovanna, una volta tornata a casa, si accasciò, morendo sotto gli occhi del marito Arnaldo. Pronta la denuncia da parte del coniuge e dei figli per fare chiarezza. Il pm Elena Cosentino, al momento, pare abbia individuato un responsabile: il medico che la visitò. Secondo il pubblico ministero il dottore avrebbe dovuto trattenerla in ospedale per ulteriori controlli e accertamenti e non rimandare subito a casa. Insomma, esami più approfonditi per capire cosa stesse succedendo. Nessuna conclusione affrettata, è nota la solerzia e lo spirito di abnegazione di questo avamposto della salute nel Far West della zona Calore – Alburni. Pur da non tecnico del settore credo che la “pressione” politica, nonché mediatica e popolare sull’ospedale di Roccadaspide non gli faccia bene. Pensate alla vicenda sfortunata della signora Reina, che la magistratura chiarirà nella direzione positiva ai sanitari del pronto soccorso. Nessuno però tiri eccessivamente per la manica i magistrati chiamati ad accertare la verità e non a certificare l’eccellenza di una struttura o il suo contrario.
QUESTIONE SANITARIA, L’ALTRO VOLTO DEL SOTTOSVILUPPO ECONOMICO
La Questione meridionale è diventata, con gli anni, soprattutto una questione di Sanità negata. Il dossier presentato all’Università cattolica del Sacro Cuore indica come sia cresciuto il divario territoriale tra Nord e Sud rispetto alle condizioni di salute: un cittadino campano, infatti, ha un’aspettativa di vita di circa tre anni più bassa rispetto ad un altro che risiede nelle regioni settentrionali. L’orizzonte verso il quale si auspica di far approdare lo sguardo della propria esistenza qui in Campania trova il suo massimo limite anagrafico in 80,5 anni (gli uomini si fermano a 78,3; e le donne, leggermente più fortunate, ad 82,8) sempreché si riesca ad attraversare indenni il periodo cruciale che va dai 50 ai 60, dato che nei nostri territori è molto più alta la mortalità prematura sotto i 70 anni di età. È legittimo poi pensare che da queste parti un altro paio d’anni ce li rimettiamo per il concentrarsi di inefficienze che un governo affidato a pessimi e miopi ragionieri ci appioppa. Dobbiamo tornare all’efficacia degli scongiuri che, come si sa, nutrono sicuramente la disperazione e meno, molto meno la speranza. E pregare coloro che strumentalizzano il nostro disagio di lasciarci stare in pace perché, come è noto, la salute deve starci per forza. Sul resto possiamo pure accettare compromessi, sulla salute no.