Fu il padre agostiniano Emmanuel de Villegas nel 1610 ad introdurlo in Europa tornando da una missione in Messico. Se ne innamorò perché lo reputava il simbolo vegetale della Passione di Cristo. Nasceva da un gracile arbusto rampicante dotato di viticci e foglie dentellate. Gli indigeni dell’America tropicale ne apprezzavano soprattutto il frutto, una bacca grossa come un uovo, di sapore agrodolce, ricco di vitamina C, da cui si ricavava un vino dolcemente inebriante. Ma al missionario interessava soprattutto il fiore. Quei filamenti disposti a raggiera nella parte centrale gli figuravano la corona di spine; lo stilo, al centro, la colonna della flagellazione, gli stimmi, i chiodi, lo stame, la spugna imbevuta di fiele e aceto, le cinque macchie sulla corolla, le cinque piaghe. In una parola era la raffigurazione perfetta di tutti gli strumenti della Passione di Cristo. Fu naturale e consequenziale darle il nome di “Passionaria”. La mostrò subito ad un suo confratello, il colto padre Giacomo Bonelli che ne fu meravigliato ed entusiasta e scrisse un “Trattato sulla crocifissione di Nostro Signore”, che conteneva anche la prima descrizione del fiore che da allora assunse il nome botanico di Passiflora incarnata. Ebbe un successo straordinario e da quel momento divenne popolare in tutta Europa ma soprattutto si coltivò nelle regioni mediterranea, il cui clima si addiceva molto alla sua crescita. Questa la storia avvincente di un rampicante diffusissimo nelle nostre zone e che nel periodo pasquale copre di foglie e fiori muri di giardini e case di paesi e città arabescandoli di grosse bacche ovoidali che colpiscono lo sguardo e scatenano la fantasia. È la pianta più utilizzata per l’arredo urbano. Cresce a cespuglio, ma si sviluppa anche ad albero ornamentale per ombreggiare viali e giardini della città. Ed è bello da vedere con i fiori rosa, bianchi, gialli dal profumo inebriante anche se, spesso, con il retrogusto di muffa. Si tratta dell’oleandro, che, tra l’altro con le foglie verde bottiglia e i fiori a grappoli fa da siepe divisoria sulle autostrade a camuffare con un tocco di bellezza il freddo metallico dei guardrail. Resiste al caldo intenso e proprio per questo è associato all’estate mediterranea. Ispirò una bella poesia a Gabriele D’annunzio, che inizia come un omaggio ad una collana di miti: “Erigone, Aretusa, Berenice/quale di voi accompagnò la notte/d’estate con più dolce melodia/tra gli oleandri lungo il bianco mare?/Solean con noi le donne presso il mare/e avea ciascuna la sua melodia/entro il suo cuore per l’amica notte/e ciascuna di lor parea contenta/E sedevano su la riva, esciti,/dalle acque chiare, con beato il sangue/del fresco sale; e gli oleandri ambigui/intrecciavan le rose al regio alloro/sul nostro capo; e il giorno di sì grandi/beni ci aveva ricolmi che noi paghi/sorridevamo di riconoscenza/indicibile al suo divin morire”. Forse proprio questi versi del divino poeta hanno fatto dell’oleandro il simbolo dell’armonia dell’universo e, soprattutto, gli hanno dato anche il nome di “lauro rosa”. L’oleandro è anche pianta di arredo dei giardini delle case a mare soprattutto nel mezzogiorno d’Italia. Tanto per fare un esempio Paestum ne è piena. È chiamata anche albero della morte, perché i rami sono molto usati nelle corone per le esequie ed anche perché le foglie sono considerate velenose. E, poi, chi non ne ha una pianta sul terrazzo di casa. Scende sulla facciata di pietra viva delle case dei paesi e di campagna. Sono i gerani che scendono a cascata dai davanzali e mettono allegria con grappoli di fiori rossi, rosa, viola, bianchi, screziati, gialli. Sono piante robuste, affrontano e sopportano le calure estive senza appassire. Il nome botanico “geranium”, deriva da greco “geranion”, che significa “becco di gru”, perché i carpelli del seme terminano in un lungo rostro, come ci ricorda Giovanni Pascoli rievocando il principio dell’autunno, quando “l’orto appassiva ed i gerani non avevano che becchi di gru”. I gerani, poi, hanno anche una loro sacralità soprattutto presso la religione islamica. Infatti una leggenda araba narra che Maometto, dopo una lunga giornata intensa di preghiere e di sermoni ai fedeli di Allah, lavò il suo abito e lo stese ad asciugare stendendolo al sole su alcune pianticelle profumate di malva. Quando lo riprese, ormai asciutto, si stupì vedendo che i fiori si erano trasformati in gerani. Passiflora, oleandro e gerani con le loro leggende cariche, a volte di letterarietà e di sacralità, stanno a dimostrare quanto e come la natura testimoni una vitalità anche nelle piante apparentemente, a volte, inutili ed insignificanti. E letterarietà e leggende vanta anche il ciliegio che è una pianta familiare nel paesaggio rurale del Cilento. Non c’è infatti casa di campagna o piccolo giardino di paese che non ne mostri una in tutta la smagliante fioritura ad aprile o con gli appetitosi frutti a scocche rosse a fine maggio principi di giugno. Kèrasos era chiamato in greco, che pare derivi dal nome della città di Kerasunte nel Ponto, da cui l’albero venne portato in Italia nel I secolo avanti Cristo da Lucullo, che aveva partecipato alla guerra contro Mitridate. È un albero carico di simbolismi: gli Albanesi, per esempio, usano bruciare rami di ciliegio nella notte del 24 dicembre, del 31 di dicembre e del 5 gennaio e ne conservavano le ceneri per fecondare la vigna. Nelle campagne francesi, invece, gli innamorati ne mettono un ramo fiorito davanti all’uscio di casa delle fidanzate nella notte tra il 30 aprile ed il 1° maggio. A loro volta i poeti giapponesi così lo hanno celebrato i poesia: “cadono i fiori di ciliegio/sugli specchi d’acqua della risaia:/stelle,/al chiarore di una notte senza luna”. E ancora: “oh, guarda!/ e null’altro da profferire/davanti ai ciliegi in fiore/del monte Yoshino”. Ed infatti le falde del monte poco distante da Tokyo sono coperte da centomila piante di ciliegi selvatici, che nella stagione della fioritura attirano migliaia e migliaia di persone incantate stupite da uno spettacolo che ha del prodigioso e che prefigura la Beatitudine Futura. E ci fermiamo qua perché avremo modo di occuparci ancora di questo albero familiare nella stagione dei frutti a scocche rosse tra un mese circa o giù di lì.
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