di Giuseppe Liuccio
Con l’arrivo del bel tempo riprendo le mie vecchie abitudini che esaltano il mio amore per la campagna che mi porto nel DNA. E, così, nei weekend faccio le mie scampagnate fuori porta nell’agro romano e lo sguardo si posa incantato ed il cuore batte all’unisono con la natura che si veste a festa con i poveri ma profumatissimi fiori che infiocchettano i fossati a margine di strada e le siepi divisorie delle proprietà contadine in gara di bellezza con i tappeti delle margherite spontanee. Virgilio scrisse: “Non omnes arbusta iuvant umilesque mrycae=Non a tutti piacciono gli arbusti di poco conto e le insignificanti tamerici”. A me piacciono e molto, a cominciare dai biancospini, che trasformano gli spinosi “brocchi” in ciuffi virginei di profumatissimi mazzetti. E sono in buona compagnia con il grande Giovanni Pascoli, che citò Virgilio, riportandone i versi nel frontespizio della sua raccolta “I canti di Castelvecchio”, che contiene, tra l’altro, la bellissima e notissima “Valentino”, che tutti abbiamo imparato a memoria già sui banchi delle elementari. I Romani chiamavano il biancospino, alba spina (spina bianca). L’alberello ha ispirato agli Inglesi una gradevole leggenda il cui protagonista è Giuseppe D’Arimatea, il membro del Sinedrio che non aveva votato la condanna di Gesù, di cui dopo la morte aveva chiesto il corpo a Pilato per seppellirlo. Ed era stato proprio lui a raccogliere il sangue del Cristo Crocifisso in un calice servito per l’Ultima Cena: Il Santo Graal. Successivamente, sbarcato nell’isola, Giuseppe piantò a Glasombury il suo bastone da cui fiorì per miracolo un biancospino. La sacralità del biancospino è testimoniata anche da un’altra leggenda secondo la quale i fiori bianchi rappresentano la Verginità dell’Immacolata Concezione, gli stami sono rossi come le gocce di sangue versate da Gesù sulla Croce e i rami spinosi erano serviti per la sua Corona di spine. Da questa leggenda si desume che la consacrazione del biancospino alla Madonna era in realtà la cristianizzazione della tradizione pagana. D’altra parte è noto che i Romani ritenevano il biancospino sacro alla dea Maia, alla quale era dedicato il mese di maggio, il mese delle purificazioni, che imponevano la castità. In questo periodo infatti, si sconsigliavano i matrimoni. Ma accanto al simbolismo ascetico il biancospino ne aveva anche uno a carattere erotico. I Greci, infatti, adornavano gli altari, con i suoi rami fioriti, durante le cerimonie nuziali. Nell’antica Roma la pianta era dedicata anche alla dea Flora, che regnava sulla primavera trionfante. Nel Medioevo c’era l’usanza di innalzarlo nella piazza del villaggio, lo si decorava con oggetti che simboleggiavano la fecondità e, poi, per rito propiziatorio vi si danzava intorno. Ma c’era anche un mito che lo dedicava alla ninfa Carna, che era stata sedotta da Giano ed il dio per ricompensarla della verginità perduta le cocesse il potere divino di tutelare i cardini delle abitazioni e le diede anche un ramo di biancospino con cui potesse scacciare i mali dalle soglie di casa. E adesso vorrei fare qualche riflessione su un altro arbusto tenuto in poca considerazione, eppure con una bella storia e di grande utilità: la tamerice. Cresce su terreni salini, specie in riva al mare, anche perché resiste ai venti carichi di salmastro. Il suo nome deriva dalla lingua ebraica, tamarix, che significa scopa. Infatti un tempo i suoi rami flessibili accorpati erano usati come ramazza. Però è una pianta carica di misteri, come racconta il mito: la “tamerice orientale” era anche chiamata “di Osiride”, mentre quella gallica era detta “tamerice di Apollo” e le veniva attribuita una valenza profetica. Gli Ebrei la tenevano in grande considerazione al punto da credere che da questa pianta piovesse la “manna” per sostentare gli Ebrei affamati nel deserto. La credenza deriva dal fatto che dalla “tamarix mannifera” fuoriesce una secrezione provocata dalla puntura di un insetto. Sia la tamerice che il biancospino vantano una loro letterarietà. Infatti, a parte la prestigiosa citazione del grandissimo Virgilio, la tamerice può contare sui versi di Gabriele D’Annunzio nella nota “La pioggia nel pineto”. “Ascolta piove/ dalle nuvole sparse/Piove su le tamerici/salmastre de arse…”
Non meno nota è “Valentino” nei cui versi Giovanni Pascoli immortala il biancospino” VALENTINO!
Oh! Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini! Solo, ai piedini provati dal rovo/porti la pelle de’ tuoi piedini;/porti le scarpe che mamma ti fece,/che non mutasti mai da quel dì,/che non costarono un picciolo: invece/costa il vestito che ti cucì./Costa; ché mamma già tutto ci spese/quel tintinnante salvadanaio:/ora esso è vuoto; e cantò più d’un mese/per riempirlo, tutto il pollaio./Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco/non ti bastava, tremavi, ahimè!,/e le galline cantavano: Un cocco!/ecco ecco un cocco un cocco per te!/Poi, le galline chiocciarono, e venne/marzo, e tu, magro contadinello,/restasti a mezzo, così con le penne,/ma nudi i piedi, come un uccello:/come l’uccello venuto dal mare,/che tra il ciliegio salta, e non sa/ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,/ci sia qualch’altra felicità”