di Giuseppe Liuccio
Ci sono trattorie nel Cilento dove si mangia da re con la materia prima rubata di fresco ai fondali di mare o ai giardini di terra. Ma la specialità in assoluto è la ciambotta, se gustata nella stagione giusta, quella dei mesi estivi. Per quanti sforzi io abbia fatto non sono riuscito a trovare una spiegazione plausibile a quel nome dalla musicalità intrigante, che mi ricorda l’infanzia. In compenso sono in grado, però, di elencarne con scrupolo gli ingredienti, che ne fanno una delizia della tavola della tradizione contadina:
I peperoni, parallelepipedi carnosi, scanalati o cuori tondeggianti a pompare umori dalla terra, verdi, gialli, rossi a screziare il verde delle foglie a ciuffi sullo stelo esile, eppure a prodigio di perenne gara di fiori a riso di germoglio e frutti a rotazione continua, oblunghi corni affusolati nel verde lustro e, via via, rasposi nel rosso bitorzoluto, quasi a propiziare fecondità di crescita contro il malocchio di folletti invidiosi o a mazzetti di spilloni rosa-rosso a promessa di condimenti sapidi e, un tantino, afrodisiaci.
Le melenzane, missili viola-cupo a fuoriuscita di custodia spinosa a sicura esplosione di gusto con il “pane” della polpa screziato di teneri coralli di semi a tenuta di filamenti a reclamare sublimi intingoli imbottitura.
Le zucche, palle screziate a riposo di solchi umidicci o a rotolo di muri a secco o bottiglie irregolari all’assalto di tronchi d’albero per uno spontaneo arredo di festa contadina, con i talli, le une e gli altri, tenera carnosità a minacciare gemme di fioritura.
I pomodori, festoni verdi-rosa ad arabesco di siepi di geometrica precisione o palline rosso intenso a catturare sole a testimonianza di vita di piante alla quasi consunzione da calura
I fagioli tenere lamine ad inanellare cuori di foglie ad ombreggiare gallerie di orti.
Le cipolle, palle bianche e/o rosate a fuoriuscita festosa di prigionia di terra.
Le patate, uova sporche covate dal cuore della terra a vegliare fiori bianchicci su letti di foglie pallide.
Erano e sono gli spettacoli che folgorarono di fantasia curiosa il mio animo di fanciullo inquieto a sospirare fuga dalla cova del paese. Sono delizie ad insaporire i ricordi di un emigrato di lusso nella omologazione dei gusti della metropoli. E la ciambotta ad amalgama di “tiano” di creta a fuoco lento cin l’olio d’oliva e l’immancabile basilico a svaporare profumi a contagio di casa, accende memoria di anni lontani. E la nostalgia a ferita di dolcezza si placa e se e quando la macchina approda, tanto per fare un esempio, uno dei tanti, nella bella piazza di Marina di Camerota, dove, a distanza, dal pergolato di “Valentone” mi investe una zaffata di profumi a pregustare delizie sapori. Ma quella di Valentone non è l’unica trattoria di qualità. Ce ne sono altre in località di mare come di collina e di montagna di identico pregio. Però io ritengo, per un atto/testimonianza d’amore che è meglio ancora se il miracolo si compie nella mia casa di Trentinara, dove mia sorella è, in cucina e non solo, straordinaria erede di mamma e nonna in quanto a competenza, pazienza e sapienza di civiltà contadina.
Oh, la poesia della “ciambotta” del mio Cilento, i cui ingredienti sono una ulteriore prova che piante, ortaggi e frutti della Natura, l’Alma Mater Terra, hanno un’anima. E lo sanno bene i poeti che ad ognuno di questi ortaggi hanno dedicato elogi in prosa e in poesia. Ne cito uno fra tutti, che assumo come esempio emblematico del coinvolgimento sia della pianta che della poesia, un sonetto di Aldo Fabrizio, grande attore ma anche bravo poeta, dedicato al “basilico”: A parte che il basilico c’incanta/perché profuma mejo de le rose,/cià certe doti medicamentose/che in tanti mali so ‘na mano santa/Abbasta na tisana de sta pianta/che mal de testa, coliche ventose/gastriti, digestioni faticose/ e malattie de petto le strapianta/. Pe via de sti miracoli che ho detto/ io ciò na farmacia sur terrazzino,/aperta giorno e notte in un vasetto/dentro c’è no speziale sempre all’opera,/ che nu pretenne modulo e bollino/ e nun c’è mai pericolo che sciopera”.