di L. R.
Note, commenti, recriminazioni, promesse si alternano ogni anno per questa data. Sopravvivere ad un lager è una cosa, vivere il dopo è un’altra. Auschwitz rischia di annientare la verità dell’accaduto se l’orrore non è raccontabile e non è ascoltabile. Nel lager dopo pochi mesi l’animo invecchia per sempre e, tuttavia, s’impara tutto sull’uomo, sulle sue forze e debolezze e anche sulla morte, che conserva la sua grandiosa naturalezza, ma si colora di oscenità quando è violenta. In questi luoghi del dolore assurdo succedono anche dei miracoli! Quando ti credi morto, una forza nuova ti spinge e continui ad essere un numero vivo. La testimonianza di chi ha vissuto quell’immane tragedia è l’unica opzione per ricordare in modo partecipe e comprendere. L’ho fatto rileggendo la toccante vicenda di Edith Bruck in Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti, Milano, 2009). Il bisogno di raccontare ed il desiderio di dimenticare fanno da cornice all’inno alla vita che sgorga dalle pagine del romanzo nel quale l’autrice descrive il suo peregrinare interiore mentre viaggia per un’Europa devastata dalla guerra. Ella fugge dal paese natio; durante il viaggio in treno è costretta all’immobilità più totale mentre è prigioniera del gioco del suo violentatore; tuttavia la vita le appare un dono meraviglioso, non si pone il problema se la prima esperienza con un uomo, anche se tormentata ed estorta, possa essere amore. Indifferente a tutto, il mondo esterno le appare caotico, povero, informe, freddo, sordo, imbronciato, condizione aggravata dall’insensibilità di chi le sta accanto: Eli. Questi vuole vivere sogni pieni di futuro, ritenendo la vita un perenne presente, non gli interessa il passato che, invece, tormenta Edith. Ella si chiede costantemente se possa aspirare alla felicità dopo essersi salvata dalla miserabile morte che, fino a qualche mese prima, le rovesciava addosso il suo gelido alito.
Clandestina nel treno, Edith si sente un ramo spezzato da un albero bruciato e gettato, ma ha ancora voglia di correre incontro alla vita. Proviene da una scuola particolarissima: Auschwitz le ha infuso un grande anelito di sopravvivenza, anche se col veleno nel sangue ed il disgusto dell’uomo in bocca. Ella si abbandona al sublime piacere della morte di una memoria che l’assilla, Auschwitz: luogo non civilizzato, privo perfino di stelle di Davide e di croci per ricordare grandi e piccoli, vecchi e giovani che amavano anch’essi la vita, immagine del Creatore morta con ogni morto. Edith s’identifica nella condizione dei compagni di viaggio: il male è grande, il bene è piccolo ma c’è, si deve solo far crescere. Si propone così di dare luce anche a se stessa pur se è difficile tentare e continuare a crederci quando si è circondati da animi volgari ed indifferenti come Eli. Il compagno di viaggio le appare sempre più come murato, separato dai sentimenti, dalle parole, dai suoi pensieri. La donna sogna la propria terra, il cortile della mamma, l’intimità del familiare calore di un quotidiano semplice e felice. Ma i sentimenti di sopravissuta non trovano molta condivisione; perciò desidera quasi sparire col suo Auschwitz, del quale nessuno vuole più parlare. Si sente sola, incapace di portare felicità; per tutti è solo un avanzo di lager. Coloro che la circondano – Eli profittatore, la zia Monika sciattona – non sono di alcun conforto; lo trova invece in Roby, il pargolo al quale fa da bambinaia e che la conforta nelle ore trascorse sola con lui, quando può parlare della tragica esperienza, del perché non è più capace di pregare, arrabbiata con Dio e col mondo.
Sovente ella intesse un dialogo immaginario col padre per chiedergli “quanta cattiveria c’è nel cuore umano?” Le sembra di ascoltare la risposta: “Quanta stella c’è nel cielo?”, citazione di una poesia alla quale fa seguire l’altra domanda: “e quanta bontà?” Edith la formula come estremo tentativo di rifiutare l’evidenza e immagina di sentire anche la risposta: “Quanta goccia c’è nell’oceano!” Rassicuranti parole, questa volta materne, percepite come una benefica bugia. In questa impenetrabile solitudine interiore la giovane chiede amore, la bocca spera di essere ascoltata. E’ capace di sognare ad occhi aperti e a occhi chiusi, anche senza incubi. Ma le sue aspettative sono puntualmente deluse. La ragazza non riesce a comprendere se Eli sia davvero cattivo o faccia finta di esserlo, o giochi con i suoi sentimenti per farle del male. Non rimane che il bambino per un po’ di serenità: il suo abbraccio induce Edith a pregare per la prima volta dopo Auschwitz: “Iddio, se c’è – questo non può assicurarlo perché dove è stata non l’ha visto – possa preservarlo da ogni sofferenza. Amen”. Questa esperienza la travolge facendole balenare il desiderio di mettere al mondo un bambino solo per educarlo come desidera: senza scuole, ma all’amore per tutti i simili, di qualsiasi colore o fede. Basta poco per far sentire la propria presenza amorevole. Le è capitato anche nel lager. Proprio lì il cuoco aveva chiesto come si chiamava a lei prigioniera senza nome, solo un numero; ma quelle parole le fa credere di esistere per davvero.
Purtroppo ogni gesto di umanità è seguito da una lunga teoria di delusioni. Capire l’amore, capire gli uomini nel bene e nel male pare un’impresa impossibile perché nella loro testa e nel loro cuore coabitano verità e menzogna, amore e odio, fedeltà e tradimento, peccato e pentimento. L’uomo, crescendo, diventa cattivo e facilmente manovrabile per compiacere chi ha in mano il potere. Solo i bambini e i vecchi sono liberi: i primi hanno davanti un orizzonte infinito d’illusioni e di possibilità, i secondi con gli occhi comunicano di aver vissuto la vita come una condanna già scontata. Ricordano ad Edith le compagne ad Auschwitz che di corsa si erano buttate contro il filo spinato: fulminate assumevano le sembianze di tanti crocifissi e lei le guardava senza lacrime ricordando gli spaventapasseri nei campi. Ma l’attaccamento alla vita in lei è stato sempre più forte di ogni tragica esperienza di morte; la vita, qualsiasi, anche nel suo assoluto disvalore, conserva una forza attrattiva totalizzante. Edith si rafforza in questo convincimento quando scopre di aspettare un figlio; ha gesti di amore per il corpo che porta dentro, di ammirazione e di protezione per la vita. Sopravvissuta a un diluvio di odio e di assassini, ella sogna che il figlio in grembo possa diventare un essere nuovo, incapace di schiacciare una formica, perché anch’essa ha il diritto alla vita se è stata creata da chicchessia, Dio o natura.
Si apre alla speranza, ma ha dimenticato che l’inferno sono gli altri. In questo caso Eli, che si sente padrone della ragazza e del loro figlio per cui pronuncia la sentenza: aborto, alla maniera del selezionatore, che, indicando la fila di sinistra, aveva mandato ai forni tanti internati. Lei avrebbe voluto gridare “nazista”. Togliere il frutto del suo corpo sarebbe un nuovo scempio, l’annullamento di un esser tornato alla vita.
Tragicamente passiva di fronte agli eventi, Edith riceve un’altra occasione, incarnata nel dottore seduto dietro la scrivania, sotto il Crocifisso, che da sempre turba la donna quando lo fissa. Gli comunica che vuole il figlio per dare una vita alla vita. A volte basta una parola, uno sguardo buono, ed Edith lo sa, lei la sopravvissuta! E’ ancora piena di dubbi verso un Dio che lascia fare, lascia morire, affamare, gelare le membra, senza un soffio di calore universale su un mondo marcio; perciò non vuole parlare di Dio, prova pena a pensare che c’è, perché è come se non ci sia. Fin da piccola ha avuto la sensazione che fosse sordo, muto e cieco, perciò, a che serve pregarlo?
Le peripezie della donna terminano quando inizia il viaggio verso l’Italia; per tutto il tragitto tiene tra le mani la pancia col bambino in segno di protezione e le sembra di vedere la madre che, con fare inquisitivo, va ripetendo: alla Terra siamo ascesi, l’abbiamo già arata, l’abbiamo anche seminata, ma il raccolto non l’abbiamo ancora avuto. Invece per Edith è abbondantissimo grazie al medico col Crocifisso appeso alla parete che ha salvato il bambino perché ha un pezzetto di Dio dentro. Un altro pezzetto, pensa la donna, lo devono avere avuto quei tedeschi che hanno dato o buttato qualche avanzo del loro cibo. Dio forse è diviso in pezzettini tra le persone migliori, anche se sono poche. Non è una preghiera formale, ma va diritta allo scopo, che conferisce alla ragazza la gioia piena di un nuovo inizio.