di Giuseppe Liuccio
Da qualche parte Giovanni Pascoli, parlando dei paesi della Garfanana e della sua gente, ha scritto che il castagno ne ha scandito i ritmi di vita dalla nascita alla morte. Li ha accolti neonati frignanti nelle culle, ne ha arredato di mobilio la casa da sposi, ne ha fornito gli attrezzi di lavoro e botti e tini per la vinificazione, li ha accolti nella prigionia pietosa della “cassa” per l’ultimo viaggio. E, naturalmente, li ha alimentati con la povera gastronomia nei lunghi mesi invernali. Quello che Pascoli scrive per la Garfagnana vale, a piè pari, per il Cilento, dove il castagno è un albero familiare e costituisce elemento essenziale del paesaggio rurale di molte zone interne. Ma ci sono località che più delle altre hanno basato una parte non trascurabile della loro economia sul castagno e i suoi prodotti. Si tratta di Roccadaspide. Stio, Futani, Cuccaro Vetere e Montano Antilia. Le castagne hanno alimentato, in parte, la povera economia del territorio e costituiscono ancora oggi una speranza di risorse per non poche famiglie. Ne sanno qualcosa i sindaci dell’intero Cilento, ma in particolare quelli dei paesi già citati ma soprattutto dell’Antilia, che spalancano finestre e loggiati sulla Valle del Lambro, che, nastro azzurro zigzagante, ferisce colline e brevi pianori alla spedita conquista dei mare dei miti di Palinuro. E il castagno è anche albero del mito, tanto che i suoi frutti venivano chiamati dagli antichi “ghiande di Giove” e, forse, anche per questo fecero parte della dieta mediterranea e ne scrisse Plinio e ne consigliarono ricette appetitose Columella e Apicio. La letterarietà del castagno e dei suoi frutti è stata esaltata da Giovanni Pascoli, come già detto ,in prosa ed in poesia, ma anche da tantissimi altri scrittori e poeti. Ce n’è abbastanza per capire che la castagna ha scandito la povera alimentazione di intere generazioni ed ha festosamente salutato le mense di tante famiglie nel periodo ottobre/novembre con lo scoppiettare delle caldarroste,la dolce pastosità delle lesse, il croccante profumo delle infornate. Ed, oggi come ieri, è un frutto che sbriglia la fantasia delle massaie con una gastronomia, che, sulle radici del passato, imbocca strade sempre più ricercate. Che delizia la zuppa di castagne al profumo di alloro o in fecondo matrimonio con i fagioli! Che spettacolo quel pastoso decoro marrone all’arista di maiale di montagna per non parlare della ricca e varia pasticceria, che trionfa nel castagnaccio, nei tronchetti, nelle torte e nella sublime imbottitura di quelle mezzelune di sfoglia, che la fantasia popolare ha battezzato “pastorelle”! L’altra pianta familiare al paesaggio rurale del Cilento fu, è e resta il fico. Nei lontani anni della mia infanzia, tra l’ultima decade di agosto e la prima quindicina di settembre, per le campagne era una festa. In tanti abbandonavano le case del paese e si trasferivano nelle piccole luminose dimore nei piccoli poderi tra uliveti, vigneti e ficheti. Era questo il periodo della raccolta e della essiccatura dei fichi. Erano, e in parte ancora sono, tutte uguali le case di campagna, costruite con materiali poveri secondo una tipologia funzionale ai lavori agricoli: un enorme stanzone a piano terra adibito a riparo degli attrezzi agricoli e del raccolto, un’agile, solare scalinata esterna con minuscolo panerottolo-loggiato per accedere al piano superiore dove, su pagliericci di fortuna, si consumavano le poche ore di sonno, quando non si dormiva all’addiaccio sotto il pergolato o il gelso a decoro-arredo dell’aia,o addirittura sotto cupole di cielo a ricamo di stelle ,,attardandosi a cori di stornellate che si rincorrevano a richiamo, di coltivo in coltivo, tra petti di colline ed avvallamenti di fiumare. Oh la dolce poesia dei ricordi dell’infanzia lontana! Comunque,anche i fichi vantano nobiltà di miti, di storie e di tradizioni (basti pensare ai “sicofanti” greci) e di belle pagine di letteratura. E meritano una trattazione a parte, che farò la prossima volta. In chiusura vorrei, però,tornare ancora sul motivo conduttore di questa mia rubrica sulla flora del Parco del Cilento per sottolineare con forza che LA NATURA HA UN’ANIMA e quindi una sua sacralità. E merita rispetto. IL CASTAGNO, poi, meriterebbe uno studio approfondito con un convegno di alto profilo con relatori esperti del settore per prospettare sviluppo, su base industriale, di un prodotto non opportunamente valorizzato per scarsa capacità imprenditoriale locale e per obiettive difficoltà di comode strade di penetrazione. Questo problema lo conosce bene il dott. Natalino Barbato, sindaco di Stio ed ormai storico membro del direttivo del Parco. Mi onora di sua amicizia e, quindi, so che ha esperienza, competenza ed autorevolezza per suggerire alla “governace”, nel suo insieme,di non baloccarsi con fumisterie e, come dice un vecchio adagio popolare, “non inseguire farfalle sotto l’Arco di Tito”, ma affrontare con forza e determinazione i problemi reali del territorio. E c’è poco da divagare, basta documentarsi sulla storia e sulle tradizioni per avere solo l’imbarazzo della scelta. Forse sarebbe più produttivo per la nostra gente affrontare e risolvere la commercializzazione dei prodotti agricoli ed educare e formare i nostri ragazzi alla sacralità dei nostri miti ed alla conoscenza della nostra storia che “filosofeggiare” sull’ingegneria dell’impianto costituzionale dell’organizzazione della gestione dei Beni Culturali. Tema questo certamente importante; ma lasciamolo al Ministro competente che elaborerà eventualmente una proposta di legge sui cui discuterà e deciderà il Parlamento.