di Monica Acito L’odore degli struffoli e dei castagnacci, come l’aroma delle madeleine di Proust, si insinua sotto la pelle e nelle cavità più profonde di tutti e cinque i sensi: odore di nostalgia e di cannella, di fuoco del camino che brucia i ricordi e di sapori di madri antiche e perdute. Il Natale nei piccoli borghi della Valle del Calore ha lo stesso profumo di legna bruciata, di forni sempre accesi e di agrumi pungenti. Se chiedessimo del Natale a una vecchietta qualunque, avvolta nei suoi scialli e nella coltre di ricordi, le si illuminerebbero gli occhi come gli astri nella notte di San Silvestro, e ci farebbe capire quanto il Natale, “ai suoi tempi”, fosse l’unica occasione per mimare e simulare un’opulenza che non esisteva. Le famiglie erano numerose, l’amore era l’unica attività che in povertà non passava mai di moda, bastava davvero poco anche per scaldare le nottate fredde come i campi di dicembre. I camini erano perennemente pieni di cenere, gli occhi dei bambini erano spalancati come caverne sulle voragini dell’inverno, e il Natale arrivava anche nei borghi gelati dal freddo di un’epoca lontana. Lo spirito del Natale sembrava conciliare, anche se per poco, tutti i piccoli e grandi drammi familiari, dando loro una parvenza di pace, appianava ogni contrasto tingendolo di rosso e oro. Se chiedessimo ad una vecchietta di parlarci del Natale, del suo Natale, probabilmente non riuscirebbe a parlarcene o forse ci proverebbe, con quell’italiano stentato mai imparato per davvero, non per colpa sua. Ma riuscirebbe comunque a farci provare il calore di quelle tavolate, a farci sentire sulla lingua il gusto degli struffoli, degli scauratielli, delle zeppole di patate e dei castagnacci, riuscirebbe a farci percepire l’alito di un’epoca incastonata nel tessuto della memoria tattile ed olfattiva. Nei nostri borghi il tempo è dilatato, in un eterno presepe imbalsamato sulle montagne, tutto è dipinto sulla salda tela della memoria. I tempi non sembrano essere dissimili dalle fiabe narrate dalle nostre nonne con flebili voci, il Natale ha ancora l’aroma intenso di quei racconti profumati di cannella, non c’è bisogno di scomodare il mito di un’età dell’oro ormai trapassata ed irraggiungibile, perché qui non abbiamo mai reciso quel cordone ombelicale che ci lega al passato. I contorni che disegnano la memoria sono diafani e scoloriti, viviamo in un romanzo fluido che si snoda tra le pagine dei borghi e i campi dei paesi, perché non possiamo sfuggire a ciò che fu. Facciamo il presepe con il muschio raccolto a grappoli dai nostri boschi selvatici, ma noi stessi viviamo in un presepe, il passato ci morde e rimorde lo stomaco ogni secondo e riusciamo ad assaporare la dolcezza dello zucchero a velo e l’aspro degli agrumi, siamo pieni di indefinibili contrasti e di disperazione aggraziata. E’ il nostro codice genetico che ce lo impone, e continuiamo a ritrovare noi stessi e la nostra identità negli occhi della nonna che impasta con le sue mani gracili, nella sua dedizione da formica, nelle nostre famiglie che si riuniscono poche volte all’anno e nei marciapiedi dei nostri paesi che si lastricano di ghiaccio e buone intenzioni, mettendosi il vestito buono a Natale come a Capodanno. L’odore del camino ci dà la sua benedizione, l’albero scintilla e i canti dei bambini si ripetono sempre uguali nei secoli e nelle parrocchie, ma va bene così. Abbiamo bisogno di certezze, di rassicurazioni, di cannella e di limone. E noi cilentani amiamo il Natale proprio per questo: perché è l’unica certezza che non tramonta mai, tra i nostri drammi quotidiani e il nostro piccolo inferno personale. Viviamo il Natale perché abbiamo bisogno di certezze e carezze, e saremo al sicuro fin quando una nonna continuerà a regalarci l’odore della cannella.
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