di Oreste Mottola
La storia che racconto è quella di un’intera giornata passata con Paolo Gentiloni, oggi presidente del consiglio, allora giornalista 24enne. Paolo, per inciso, era già un’esponente di rilievo del movimento pacifista italiano che contestava il veloce riarmo in corso tra Usa e Urss anche a seguito della vittoria di Reagan. Era il 1980, verso la fine di dicembre, il nostro mondo c’era da poco venuto addosso con un terremoto che aveva contribuito a imbrogliare i nostri vent’anni già complicati di nostro. C’era sembrata una guerra con l’appello infinito a sapere se i tanti che si conoscevano nell’area del cratere ce l’avevano “fatta” o meno. E se erano vivi, come se la passassero. I compagni di scuola, le conoscenze per caso, i parenti. Questione complicata in un mondo dove allora c’era sola la telefonia fissa, internet e i social manco li immaginiamo, e si finiva agli appelli alle radio e alla televisione.
Un giro al volo attraverso i paesi dell’Alto Sele era – anche per questo – un’occasione da cogliere. Quando mi incaricarono di assisterlo in questo tour non ci pensai due volte. La gente era stata tratta da poco dalle macerie e posta in improvvisate tendopoli. Qualcuno (pochi) era andato negli alberghi della costa. La vita stentava a ricominciare. Uso l’occasione dello scatto di carriera politica fatto da Paolo Gentiloni per un mio personale amarcord. Lettori, scusatemi.
Ci improvvisavamo a tutto in quelle piccole sedi alle botteghelle a Salerno e alle scalelle di Eboli. Un po’ volontari e agit prop politici, giornalisti e attivisti, tra il sindacato e il partito comunista che dava forse l’ultima prova di peso effettivo in quella società meridionale che intuiamo in trasformazione ma nessuno, tranne i volenterosi giovanotti che facevano i professori della facoltà di sociologia, e Gerardo il sindacalista, capivamo dove buttasse il vento.
LE PRIME CONOSCENZE: LA CAMORRA E LA MALAPOLITICA
Il boato del terremoto ci aveva buttato in faccia anche vecchie presenze come la camorra e il mondo dei costruttori meridionali che avevamo, secondo noi, archiviato con il film documento “Le mani sulla città” di Rosi. Nel mondo politico locale ti toccano ancora i socialdemocratici, ma non erano tedeschi ma ruspanti camorristelli., i repubblicani un po’ massoni, i socialisti che si agitavano tra pulsioni rivoluzionarie e affaristiche. Ricordo che dal “partito” romano a Eboli una delle cose che ci regalarono per consentirci di essere più attivi politicamente fu uno di quegli impianti voce che si montavano sulle automobili. Restò nella sezione non più di una settimana, rubato e rivenduto da qualcuno di quel sottoproletariato ebolitano al quale noi volevamo dar voce ma nel frattempo provvedevano a togliercela a noi. Non sapremo mai se con quel provento una famiglia ci mise tavola per qualche giorno o un tossico si comprò di che bucarsi. Preferiamo la prima, più probabile la seconda.
A un certo punto, per darci sempre una mano, arrivò Roberto, inquieto funzionario di partito, romano. Eboli, come sempre, era l’ultima stazione, le colonne d’Ercole. La nostra sede era senza telefono. Roberto la sera chiamava a Roma e sapeva cosa fare.
LE NOSTRE RICETTE, LE COOPERATIVE
Organizzammo anche un raduno nazione dei nostri “cooperatori”, perché sostenevano che questa potesse essere una d’uscita per il nostro sud. Le cooperative. Intanto lo Stato attrezzava grandi aree industriali distruggendo grandi aree agricole e comprando i suoli dai camorristi che le avevano scippate ai contadini veri. Arrivarono poi gli imprenditori del prendi i soldi e scappa e così si arrivò al più grande scandalo dell’Italia moderna.
Avevo promesso di parlarvi di Gentiloni da queste parti. A Roberto comunicarono dell’arrivo di Paolo Gentiloni e Aldo Garzia. Non erano semplici giornalisti, ai tempi – dalle nostre parti – non è che la militanza politica si separasse facilmente dal semplice esercizio del “scrivo e pubblico”. Tutto stava assieme. Lotto perché scrivo. Scrivevo lottando. Aldo e Paolo erano inviati di “Pace e Guerra”, una rivista che si chiamava proprio così, in questo ordine, non come nel libro di Tolstoj, e che provava a riannodare l’idea di una unità delle forze politiche della sinistra dopo che Craxi e Berlinguer se n’erano dette di tutti i colori.
SU PER I PAESI BOMBARDATI
L’appuntamento di fronte a Ginetti, nella Eboli della grande piazza vanvitelliana. Destinazione era quell’Alto Sele, letteralmente “bombardato” dal terremoto, l’osso secondo la definizione del professor Rossi Doria (padre). Anche Eboli ti accoglieva con un palazzo crollato. Il senso di morte era ancora presente ma noi, con la gente, eravamo proiettati in una dimensione di futuro più infantile che entusiasta. Il viaggio prevedeva Laviano, Buccino e poi in serata una Campagna che ricordo piena di acqua e fango. A Laviano mi ricordo una discussione molto accesa sui temi che i terremoti successivi ci resero familiare, i sopravvissuti che non volevano abbandonare il paese. A Buccino apprendiamo della persistenza di una tradizione di sinistra “non allineata” che in questa zona partiva dall’avvocato Ceriello compagno di quell’Amadeo Bordiga, l’ingegnere napoletano che dava del tu a Lenin. Il risultato era, secondo pensosi dirigenti che lo raccontavano ai due forestieri, un “diffuso ribellismo”. Paolo Gentiloni e Aldo Garzia prendevano nota sui loro taccuini. Gentiloni lo ricordo sempre a modino, allora nulla sapevo delle sue origini aristocratiche, pensavo fossero coincidenze. Come quelle di Luca Cafiero, altro protagonista di allora. Era la sinistra radical chic che indignava Indro Montanelli e Gianna Preda. Noi però eravamo interessati a ciò che accadeva a noi, da noi. Il “carico” di storie e sensazioni anche per me fu assai forte. mentre continuavo a chiedermi quale fosse la ricetta più giusta per la “rinascita” di queste zone che si raggiungono attraverso stradine assai anguste e pericolose. Il futuro premeva… non sapevamo che quel lungo inverno avrebbe attraversato anche molti altri anni. Non ho memoria del reportage che scrissero a seguito della giornata: colpa mia, perché quella drammatica presa di contatto di quella sciagura si impresse più vivamente nella mia mente che dei miei compagni di viaggio di quella giornata. Il fatto è – e io posso testimoniarlo direttamente – che nel bagaglio di formazione del presidente del consiglio italiano c’è la piena condivisione dello scenario della questione meridionale italiano che il terremoto del 1980 aprì e offrì al mondo. Quando pensammo che la storia dell’endemico sottosviluppo economico e civile si potesse chiudere con le industrie sulle montagne e le cooperative nelle pianure. Finì a ladrocinii infiniti e con un nord che confermava i suoi eterni pregiudizi su di noi. Noi però – anche con l’entusiasmo dei nostri vent’anni – credemmo di scrivere una storia diversa. Io stavo con loro. E c’era anche allegria.