di Giuseppe Liuccio Novembre è il mese della raccolta delle olive. Nelle campagne c’è grande vivacità. Gli uliveti sono affollati e risuonano di canti. Si riaprono i frantoi, “li trappiti” e ne diventano protagonisti “li trappitari” con tanti aiutanti che hanno familiarità con mole, “friscoli” e “nuzzo”. Io ho memoria nitida sia del lavoro della raccolta delle olive, sia di quello dei “trappitari” e dei loro aiutanti. Ed era uno spettacolo che metteva allegria l’olio che colava, come l’oro fuso, e prometteva abbondanza di sapori e profumi per un intero anno. Nei miei ricordi mi scatenavano emozioni, che poi si sono fatte parola poetica, come mi succedeva per tutte le feste della civiltà contadina: la mietitura e la pisatura, che assicurava grano e, quindi, pane, la vendemmia che garantiva vino, la raccolta e la molitura delle olive, appunto, che riempiva d’olio la dispensa. Erano tutte e tre una festa, la festa della nostra alimentazione, della nostra dieta, diventata e proclamata poi, mediterranea: ed è stata, poi, riconosciuta e sacralizzata dall’Unesco, “patrimonio dell’umanità”, quella che ci ha fatto crescere sani e forti, perché mangiavamo lo stesso cibo degli dei dell’olimpo e dei miti, come avrei appreso nel rigore degli studi classici. La sacralità la respirai da bambino il giorno della Domenica delle Palme. Era una festa importante per tutte le comunità del Cilento. Le chiesette dei centri storici, belle nella essenzialità delle linee architettoniche, e quelle di campagna, dove penetravano fiotti di sole tiepido e folate di profumi primaverili, erano, e sono teatro di fascino e cariche di messaggi e di simboli. E ancora oggi sullo schermo della memoria danzano fotogrammi di vita e mi rivedo bambino festante con il mio ramo d’ulivo, carico di mandorle e fichi secchi, che ondeggia tra cento mani a cogliere gocce d’acqua lustrale dal celebrante benedicente. E il pensiero corre, per immediata ed istintiva correlazione di immagini, alle colline dell’interno ed ai terrazzamenti a pendio di costa, dove ulivi secolari s’inargentano alla brezza e cantano al vento storie di lavoro paziente e di saggezza e di sapere di antichi mestieri. Ed il paesaggio della mia terra si dilata al Mediterraneo e alla Grecia e parla di leggende e miti, interiorizzati nel rigore degli studi classici. E sull’Acropoli di Atene campeggia, bella e possente, la dea protettrice con il suo dono di vita e di lavoro: l’albero forte e fronzuto con radici profonde e rami sempreverdi per corone di feste e di vittoria e frutti generosi per sapori di alimenti, unguenti di atleti nelle gare e profumi di donne nei ginecei, vita/fiamma flebile alle lucerne sulle tombe per rischiarare il viaggio nell’aldilà. E l’eco rimbomba nelle arringhe dei tribunali (“Per l’ulivo sacro” di Lisia) o nelle platee dei teatri (“Edipo a Colono” di Sofocle). E canti di antichi poeti e salmi di sacerdoti officianti si fondono in un superiore concetto di cultura, che trascende la ritualità religiosa e si sublima nell’eternità della mediterraneità. E con il ricordo delle Palme e della conseguente Settimana Santa dall’oscurità di vecchie casse o dalla penombra di cantine sotterranee emerge il miracolo del grano pallido sbocciato e cresciuto per incanto nei reticoli di stoppa inumidita e riempie di vita tenera piatti di ruvida creta e con la civetteria di grappoli screziati di violacciocche adora il “Sepolcro” di Cristo ed esalta il Sacramento dell’Eucarestia. Quel pane che, nel miracolo della transustanziazione, si fa corpo e quel vino, che pulsa sangue nelle vene del “Redentore”, riaccendono nostalgie per le tovaglie di candido lino e cesti stracolmi di pane croccante sul lungo tavolo al centro della chiesa madre. E il sacerdote in camice bianco e stola violacea rinnova il mistero del “Giovedì Santo”. E ancora una volta la mediterraneità trionfa nel fasto dei suoi alimenti. E le campagne biondeggiano dell’oro del frumento e s’ingravidano degli umori e dei profumi dei vigneti. E libri di scuola e reperti dei musei rovesciano nell’immaginario collettivo scene di conviti e quadri di vita agreste e dei e ninfe popolano templi e campagne, fiumi e boschi. E Demetra e Cibele, Hera ed Iside, Bacco e Pan, Priapo e Sileno occhieggiano dal pantheon del passato; e cristianesimo e paganesimo, fede e superstizione, storia e mito si mescolano e si fondono nel superiore concetto di cultura; ed il razionalismo laico spesso si appanna e, a volte, si arrende all’inaccessibilità del mistero della religione per rinascere, poi, nella fecondità del dubbio e ritrovare equilibrio e serenità nell’esaltazione del libero pensiero. Hanno una loro logica queste mie divagazioni di uomo greco del XX secolo che ritrova nel rito delle Palme le sacre radici dell’olivicoltura ateniese, nel grano del “sepolcro” e nel pane e nel vino dell’Eucarestia la fecondità della terra mediterranea e in quella madonna nera che dispensa sorrisi di maternità sulla collina del Calpazio la statuaria maestosità della Magna Mater, che fu Cibele Demetra, Iside ed Hera e, con nomi diversi, perpetuò il miracolo della vita, quella che rinasce e si perpetua ad ogni primavera e celebra il suo trionfo e si sublima nella ritualità della Pasqua di Resurrezione. Anche la lettura laica del mistero della vita ha una sua profonda religiosità, la religiosità della Cultura, quella con la C maiuscola che è saldamente ancorata al Trionfo della Mediterraneità nei riti della nostra SETTIMANA SANTA, come nei culti di altre religioni. Mi sembra superfluo sottolineare di tenere alto il livello del dibattito nella politica e tra gli intellettuali del territorio come dell’insegnamento nelle nostre scuole, legando l’uno all’altro e sottolineando, all’occorrenza, che noi da sempre andiamo a tavola in compagnia di Cerere, Demetra, dee dei cereali, Era, dea della fecondità e dell’abbondanza, di Persefone/Proserpina, dea dell’alternarsi delle stagioni, di Bacco/Dioniso, dio del vino, di Minerva/Atena, dea dell’olio e che da secoli le generazioni nate e vissute nel nostro territorio si sono educate al canto della poesia di Omero e dei tragici greci, della grande poesia latina di Orazio e Virgilio, alla prosa poetica delle “Opere e i giorni”. Insomma abbiamo respirato aria di mito che è connaturato alla ragione stessa della nostra esistenza. Forse è il caso che, parlando del nostro passato, cominciamo ad usare termini che si addicono di più alla nostra storia e sono nel nostro DNA, come “CUCINA DEGLI DEI”, mutuando il termine dal titolo di un bel libro di Anna Ferrari o “A TAVOLA CON GLI DEI”, una avvincente e coinvolgente storia della Cucina delle Eolie di Stefania Barzini. Se il nostro linguaggio sarà di tono alto e impegnativo forse scoraggerà i cialtroni improvvisatori con le loro fumisterie quotidiane. Torniamo alle origini della nostra storia, quando anche i gesti della quotidianità avevano la ritualità del sacro. Torniamo a “MANGIARE CON GLI DEI E COME GLI DEI”, sacralizzandone i gesti e la simbologia. Ma ora ritorniamo all’ulivo che è il tema della nostra riflessione di oggi, con l’impegno, però, di affrontare le riflessioni sulla vite e sul vino, alberi e frutti regali del dio Dioniso/Bacco, e sul grano e sui cereali doni generosi di Demetra, Cibele e, a ritroso nel tempo, Iside e Magna Mater, che hanno popolato la storia e la cultura del Mediterraneo e fecondato l’immaginario collettivo della ritualità del nostro Cilento che vide fiorire le città di Poseisonia/Paestum e di Velia, di cui siamo eredi non sempre consapevoli ed orgogliosi, Allora l’ulivo che ci consente di chiudere così come abbiamo aperto questa riflessione. E, a tal proposito, è opportuno ricordare qui che un ramoscello d’olivo, portato nel becco di una colomba, annunciò a Noè la fine del diluvio universale. Ma non è la sola leggenda che mitizza l’olivo e lo rende sacro ed immortale. Se, infatti, adiamo alle radici del mito apprendiamo che Zeus decide di dare un dono ad Atene e promette che affiderà la protezione e la guida della città al dio che fornirà a questa terra il dono più utile. A sfidarsi sono Atena e Poseidone. Poseidone fornirà il cavallo, Atena l’olivo. Zeus giudica vincitrice la dea sua figlia, oltretutto già dea della sapienza perché nata dalla testa del padre, sostenendo che il cavallo è per la guerra mentre l’olivo è per la pace. Anche la letteratura di tutti tempi ha dedicato attenzione all’olivo e all’olio. E, a parte i già citati Lisia Sofocle ed Esiodo, Virgilio ed Orazio della letteratura classica, che tutti abbiamo studiato sui banchi di scuola, esiste una vasta e ricca antologia di poesie e prose non sempre opportunamente conosciute ma molto significative e importanti di autori italiani e stranieri che hanno trovato nell’olivo e nell’olio la loro ispirazione. Ne cito qui un elenco lungo anche se non esaustivo: D’Annunzio, Pascoli, Garcia Lorca, Pablo Neruda, Frederic Mistral, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Giosuè Carducci, Ignazio Silone, Italo Calvino. C’è materia ampia ricca e bella, che potrebbe sbrigliare la fantasia di docenti e alunni per ipotizzare una teatralizzazione sul tema, che darebbe dignità letteraria ai prodotti della nostra terra. Conosco docenti colti e motivati disponibili a stilare progetti e bussare alle stanze dei politici influenti e potenti del territorio, deputati, senatori, consiglieri regionali, sindaci, assessori alla cultura, alla variegata governance del Parco, ma si astengono per non vedersi scalzati dagli incompetenti, poveri di idee ma ricchi di consensi elettorali, di cui sono, o vantano di essere portatori e come tali dispongono delle amicizie giuste ed influenti e, alla malora, professionalità e conseguente sviluppo del territorio nel segno della cultura. Che tristezza! Ma io continuo a recitare il mio ruolo di intellettuale come dovere d’amore per la mia terra, fin quando reggo ed ho forze fisiche e mentali valide e, soprattutto la lucidità di inventiva e di scrittura, anche se corro il rischio di essere, ogni giorno di più,“vox clamantis in deserto”. Torno, così, alla antologia di poesie e prose di e da tutte le letterature. E ne seleziono qui di seguito alcune schegge significative con la speranza, che è l’ultima a morire, di fecondare cuore anima e pensieri dei potenti detentori della “borsa pubblica”. Ho più di un dubbio fondato. Ma da una vita sono abituato alle sconfitte. “…(il paese) sta nascosto come un lungo serpente acquattato fra le pietre; ma i tetti rossi- gialli della parte alta apparivano fra le fronde grigie degli ulivi mosse dal vento, fuori della consueta immobilità, come cose vive; e, dietro questo primo piano colorato, le grandi distese desolate delle argille sembravano ondulare nell’aria calda come sospese al cielo, e sopra il loro monotono biancore passava l’ombra mutevole delle nubi estive …” (da “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi). “Il marranzano tristemente vibra/nella gola al carraio che risale/il colle nitido di luna,/tra il murmure d’ulivi saraceni” (Salvatore Quasimodo, Strada di Agrigentum). “Pure colline chiudevano d’intorno/marina e case; ulivi le vestivano/qua e là disseminati come greggi,/o tenui come il fumo di un casale/che veleggi/la faccia cadente del cielo” (Eugenio Montale, Fine dell’infanzia (Ossi di seppia). “L’ombra negli occhi s’addensava/Delle vergini come/ sera appiè degli olivi” (Giuseppe Ungaretti, L’isola). E, da ultimo, dolcissima e profonda di religiosità questa breve di Pascoli, che affronta la sacralità dell’ulivo e dell’olio nelle ritualità religiosa, che meriterebbe una riflessione a parte “non dare a noi nulla; ma resta!/ma cresci. sicuro e tardivo,/nel tempo che tace!/ma nutri il lumino soletto/che, dopo, ci brilli sul letto/dell’ultima pace”.
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