di L. R. Rispetto alla recentissima tornata elettorale negli USA, persisteva in tanti di noi benpensanti una certa rassicurante convinzione che il personaggio, inaspettatamente divenuto Presidente degli Stati Uniti d’America, fosse troppo diverso da chi si è sempre identificato con la leadership operante a Washington per poter vincere. Invece, la sorpresa che ha determinato proteste, stupore, rincrescimento, paura, le prime reazioni all’annunzio del successo di Trump. Ma tutto ciò è già passato; ora occorre interrogarsi su come sia potuta avverarsi una improbabile vittoria, dopo aver messo da parte emotività e risentimenti, partendo dalla evidente costatazione che una nazione ha scelto democraticamente il proprio leader. Se è vero che i popoli hanno i capi che si meritano, è anche vero che non è più consigliabile porsi di fronte a questa vicenda sottolineando aspetti marginali o corografici rispetto al nocciolo della questione e cercare d’individuare le ragioni alla base dell’inaspettato risultato elettorale. Se partiamo dalla crisi del 2007 e consideriamo chi ne è stato la causa ed il motivo, allora è possibile cominciare a cogliere alcuni elementi per trovare una risposta alla sorpresa dello scorso martedì. La speculazione dei grandi gruppi finanziari ha ridotto al lastrico numerosissime famiglie; molte di queste appartenenti al ceto medio, improvvisamente percepitosi indifeso, si sono pericolosamente affacciate sul baratro della povertà. Si è posto mano per trovare una soluzione? Pare che i tentativi non siano stati particolarmente efficaci se a dominare la scena è ancora l’economia finanziaria rispetto a quella reale. Essa opera indisturbata in un regime di assoluto monopolio nel delineare strategie e nel procedere alla loro realizzazione. Intanto i governanti chiedono ulteriori sacrifici, mentre la forbice tra ricchi e poveri si allarga e il numero degli indigenti tende, anche in Occidente, a crescere pericolosamente. Non deve meravigliare, quindi, la diffusa protesta per una globalizzazione poco virtuosa. Tutto ciò ha avuto un impatto molto forte sull’elettorato statunitense, soprattutto sulla provincia che ha trovato nell’urna il proprio strumento di efficace protesta. Quando si parla di provincia americana ovviamente non si fa riferimento soltanto all’elemento geografico, ma anche a quello mentale. Essa comprende tutti quei gruppi che, pur vivendo nella condizione propria della società liquida, ancora sono ancorati a valori, comportamenti, miti ed aspirazioni dei decenni passati. Inoltre un’informazione subdolamente di parte fa in modo che proprio questa specie di periferia sociale risulti scarsamente informata. Del resto, tendenzialmente si tratta di cittadini poco attenti a quanto non è oggetto della loro quotidianità e per nulla interessati a prospettive di medio o di lungo periodo perché abbarbicati a radicati dogma, come quello secondo cui gli Stati Uniti sono la prima potenza, la “città sulla collina”, esempio che tutti devono seguire. Ovviamente questa dimensione socio-mentale può garantire la pancia se il trend economico lo consente, certamente non irrobustisce la mente consentendole una radicata capacità critica. Orbene, se si analizza la tecnica di propaganda del vincitore delle elezioni presidenziali statunitensi si nota subito che termini, espressioni, battute, slogan sono stati tutti funzionali a stimolare il risentimento dei tanti che non si sentono inseriti in un contesto vincente che faccia ben sperare per il loro futuro. Va anche considerato che in un paese così libertario molti manifestano ancora radicato un sostanziale scetticismo verso la donna al potere. Né è da sottovalutare l’azione di una lobby come quella dell’industria delle armi; impensierita dalla costante affermazione circa la necessità di dover porre un freno serio alla facilità dell’acquisto di armi sempre più sofisticate, ha evocato la sacralità del relativo emendamento alla costituzione. Inoltre, non è un mistero la diffusa stanchezza ed un chiaro risentimento, come ai tempi delle dimissioni di Nixon, per un ceto dirigente e di vertice a Washington che lascia molto a desiderare non solo sul piano personale, ma anche su quello del bene pubblico. L’avversaria di Trump ha impersonato tutto ciò e non se ne è curata, nella convinzione che i poteri forti che l’hanno voluta potevano far affidamento sulla presunta vincente consapevolezza di esser loro, comunque e sempre, i più forti! I risultati delle elezioni invitano ad una prima riflessione da fare con urgenza per avviare una gestione multipolare delle relazioni internazionali praticando non il potere della forza, ma il convincimento dello smart power. L’esigenza di multipolarità si lega anche al fatto che non è praticabile una situazione nella quale l’orientamento elettorale in un paese come gli USA possa determinare l’agenda complessiva nel mondo. L’altra considerazione si lega ad una prospettiva di medio e lungo periodo della quale si sente crescente necessità e per la quale da più parti si è intervenuti. E’ l’auspicio a cercare di avviare un processo virtuoso nell’economia, nelle relazioni tra popoli, nei rapporti interni alle singole nazioni. Tutto ciò parte dalla necessità di procedere al ridimensionamento dei poteri forti, dotati però di un evidente pensiero debole, e riscoprire i tanti insegnamenti della storia allo scopo di recuperare memoria ed identità. Ciò diventa possibile anche nella società liquida se si è disposti ad una radicale metanoia e iniziare l’esodo dall’impero della res, prodotto di una economia che vuole tutti consumatori e pochissimi ricchi, nel contempo pronti alla redenzione del nous, vale a dire recuperare i valori della cultura e della bellezza, tutti beni essenziali per poter disporre di una capacità critica adeguata allo status e alle funzioni del cittadino impegnato a salvaguardare e consolidare la libertà propria operando per assicurare quella di tutti.
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