Senza il vino tutto sarebbe andato diversamente. Sin dalle origini della storia le bevande alcoliche giocavano un ruolo fondamentale durante rituali e cerimonie, come mostra l’archeologia. C’è persino chi ipotizza che fosse stata la stessa produzione di bevande alcoliche a provocare la svolta più importante nella storia umana, ovvero la transizione dal nomadismo al sedentarismo e all’agricoltura. In Italia recenti ricerche archeologiche e scientifiche hanno dimostrato che già prima dell’arrivo dei Greci nell’ VIII sec. a. C. si coltivava la vite. È ancora discusso come il vino pre-greco si distinguesse da quello greco. Tuttavia, non è solo una questione di colture e vitigni. Per gli antichi, bere il vino era un’arte, una tecnica che strutturava tutta una sere di aspetti della vita: rapporti sociali, politici, culturali, erotici, ma soprattutto il rapporto con se stesso. Cercare la passione, la trasgressione e l’ebbrezza senza perdere completamente il controllo di se stessi: era questa la propensione, la tensione, l’ambizione. Detto con le parole del poeta greco Teognide (VI sec. a.C.), “gli esperti riconoscono l’oro e l’argento grazie al fuoco, ma l’animo dell’uomo lo rivela il vino” (nella vulgata questo pensiero è diventato il noto adagio “in vino veritas”). Infatti, per i Greci una differenza principale tra loro e gli altri (i “barbari”) era che mentre i Greci mescolavano il vino con l’acqua, i “barbari” bevevano il vino puro, ubriacandosi fino a perdere ogni controllo di se stessi. Ci manca la visione dei “barbari”, che non hanno lasciato fonti scritte su questo aspetto, ma immagini e oggetti trovati nell’Appennino, in Etruria, nel Lazio ecc. mostrano che anche tra le popolazioni non-greche il vino aveva un forte valore sociale e rituale. Del resto, basta fare un viaggio in Europa tra Nord e Sud per rendersi conto di come ancora oggi le culture del vino e del bere siano variegate e multiformi. Non a caso nella Tomba del Tuffatore, tomba dipinta nel V sec. a.C. proveniente da Paestum, vediamo, oltre al famoso tuffatore che ha dato il nome alla tomba, una scena di simposio, ossia un banchetto sdraiato di tipo greco. Il simposio era il luogo dove si praticava la poesia, la musica (sugli affreschi della tomba vediamo anche suonatori e suonatrici), ma soprattutto ci si allenava nell’arte del bere, del parlare e del vivere secondo l’ideale del bello e del vero. Come per la vita in generale, la cultura del vino non s’impara soltanto con i libri. La coltivazione della vite, la produzione del vino e l’arte del buon bere si trasmettono di generazione in generazione. È l’esperienza, il sapere che i genitori trasmettono ai figli che fa la differenza. L’evento a Paestum vuole ripercorrere un pezzo di questa storia fuori dai libri, mettendo insieme archeologi, antropologi, produttori, sommelier e altri esperti che si occupano a vario titolo di cultura vinaria. Oltre a presentazioni e incontri, infatti, ci sarà la possibilità per il pubblico di sottoporre domande e proporre interventi, oltre a una degustazione di vini nel Parco Archeologico di Paestum. Infine, un comitato di esperti andrà a premiare il “Vino del Tuffatore”, ossia quel vino mediterraneo che a giudizio del comitato meglio riconcilia l’eccellenza enologica di oggi con la tradizione mediterranea di fare il vino. Proprio perché tale tradizione rischia ai giorni nostri di essere soffocata da una tendenza omogeneizzante, che cancella le particolarità regionali a favore di un gusto globalizzato e standardizzato, il Premio del Tuffatore si propone come un’iniziativa sinergica per combinare l’archeologia, la dieta mediterranea e le tradizioni del territorio. Per il programma completo e il regolamento, clicca qui.
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