di L. R. Due domeniche fa, facendo salire in cattedra una vedova, nel Vangelo proclamato durante la liturgia della Parola Gesù ci ha ricordato che occorre pregare sempre e non con delle formule, ma affinando il proprio spirito riconoscente per la costante benevolenza al Padre. Domenica scorsa ha continuato il suo corso di formazione alla preghiera descrivendo la vera predisposizione d’animo perché la preghiera risulti efficace. Gesù lo fa a modo suo, uno stile semplice, diretto, dirompente presentando due personalità agli antipodi nel loro modo di entrare in relazione con Dio. Il primo, delineato con rimarchevoli pennellate, è un fariseo, uomo della legge profondamente religioso e puntuale nelle pratiche fino allo scrupolo. Queste caratteristiche dovrebbero suscitare nei suoi confronti ammirazione e rispetto, invece il suo modo di porsi, sicuro di sé nel Tempio mentre entra in contatto con Dio “in piedi”, determina già una reazione non positiva, che diventa sostanziale condanna quando si riflette sulle parole che Gesù gli mette in bocca. Anche se apparentemente di lode e di ringraziamento, esse sono l’enfatica manifestazione di come egli si percepisce e si giudica. Infatti, il fariseo rende grazie per ciò che fa, al punto di sentirsi in credito con Dio, dal quale non si attende misericordia e il dono della salvezza, ma un meritatissimo premio! L’altro personaggio descritto da Gesù è un pubblicano, il tipo di uomo allora più disprezzato perché un usuraio connivente con gli odiati romani. Eppure, già da come si presenta esteriormente – dimesso e compunto – il suo animo suscita un moto simpatetico; si ferma a distanza, non ha il coraggio di alzare gli occhi: gesti ed atteggiamenti che descrivono bene il suo stato d’animo immerso in una preghiera di pentimento e di fiducia nella bontà di Dio. Egli chiede di essere accolto e perdonato consapevole della propria pochezza, degli errori fatti e della difficoltà nel trovare la giusta via. Il commento finale di Gesù, come al solito, è sconvolgente: il pubblicano può ritornare a casa e godere della compagnia e degli affetti di chi lo attende perché riconciliato con se stesso; ha sollecitato il perdono, quindi ha riallacciato la relazione con gli altri e con Dio. Il fariseo, invece, non ha più parole. Il silenzio che lo circonda è conseguenza della sua scelta di fidarsi del proprio ego; ha fatto della preghiera un dialogo esclusivo con se stesso, a parole si è rivolto a Dio, in realtà per tutto il tempo è rimasto concentrato su di sé, sul proprio IO, presuntuoso ha dimenticato il TU e l’amore di Dio. Ecco perché il mondo gli appare un covo di ladri che mina l‘autenticità della sua preghiera, tutta tesa a disprezzare gli altri. La sua anima è paralizzata nel contemplare le proprie presunte virtù. E’ l’avvertimento che Gesù ci fa: persino la preghiera può separarci da Dio e renderci “atei” se il Dio al quale ci rivolgiamo è solo la proiezione di noi stessi, incapaci di pronunciare parole cardine, come “abbi pietà”, per attrarre la promettente attenzione del Signore. Il pubblicano, che appare un grumo di umanità curva nei precordi nascosti di una coscienza che si sta risvegliando all’amore del Padre, pronunzia invece questa invocazione, invoca la misericordia perché si percepisce peccatore. Ecco la grande differenza tra i due personaggi della parabola: il fariseo identifica la religione con tutto ciò che egli compie per Dio; il pubblicano, invece, medita e considera quanto Dio fa per lui, perciò può ritornare “a casa sua giustificato”. Egli riceve il perdono non perché divenuto migliore o più umile del fariseo, ma perché si è aperto senza remore alle meraviglie della misericordia di Dio.
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