di Fornace Falcone
Sandro Chia, grande artista della Transavanguardia, con l’amico Valerio Falcone si parla di Arte Contemporanea per un progetto site specific. Celebrato produttore di vini nella sua azienda Castello Romitorio a Montalcino.
Non ha azzardato chi ha voluto paragonare la fantasia e maestria artistica di Sandro Chia a quella genialità scomposta e ardita di Leonardo da Vinci. Chia, uno dei protagonisti assoluti della Transavanguardia è, proprio come il grande maestro rinascimentale, non solo toscano (di Firenze), ma anche pittore, scultore, scrittore, architetto e, dal 1984, anche prestigioso produttore di vini.
La sua azienda, Castello Romitorio, sorge sulle colline senesi di Montalcino, e i vini che produce sono apprezzati dalla critica e gustati e amati dal pubblico non solo italiano ma di tutto il mondo. Così divisa la produzione: due Brunello di Montalcino, un “Supertuscan” Romitorio del Romitorio e, nella tenuta di Ghiaccio forte nella zona di Scansano, così chiamata per il nome dell’antica città etrusca che si trova a poca distanza dall’attuale cantina dell’azienda, il Morellino in due versioni. Immancabile il Chianti Colli Senesi a base di Sangiovese in purezza e l’ultimo nato, il bianco Costanza, in onore di una delle figlie del maestro Chia, un vino fresco a base di Vermentino e Chardonnay.
Da artista affermato cosa l’ha spinta a venire a Montalcino ad investire nel mondo del vino? In realtà è stata un’occasione, anche se io da toscano cercavo da tempo una tenuta da acquistare nella mia terra natìa. Mentre ero a New York, nel 1984, un mio vecchio amico di Roma mi propose l’acquisto di un castello, ed io mi precipitai subito a vederlo. Una volta arrivato lì vidi una tenuta semi abbandonata, selvaggia, e me ne innamorai subito. Montalcino è sempre stato un luogo di vino, per tradizione e anche mitologia, così ho ristrutturato completamente il castello mantenendo la sua struttura originale, ho impiantato vigne che non c’erano, il tutto fatto con il massimo rispetto della natura, per il luogo e la sua storia.
C’è un comune denominatore tra fare vino e creare un’opera d’arte? Sono l’uno la continuazione dell’altro, entrambe seguono l’uomo, dalle origini, dalla Bibbia, la mitologia con il dio Bacco, nella pittura fin dai tempi preistorici con i primi dipinti nelle caverne. L’uomo ha sempre cercato di rappresentare attraverso l’arte la sua vita, e spesso il vino ne è stato l’artefice o protagonista. C’è l’arte dell’arte e l’arte del vino. Il rapporto con la natura, la trasformazione della materia primaria, per raggiungere il sublime dello spirito, e un prodotto finale che è la fusione di tutto questo: natura e uomo, materia e spirito.
Le sue etichette sono delle opere d’arte in miniatura, cosa rappresentano e cose le ispira? L’etichetta per un vino è la sua immagine, l’involucro che presenta un prodotto. Le etichette in questo caso sono un buon veicolo per l’arte, una finestra che si apre su un mondo che fruisce vino e arte. Ognuno di noi percepisce l’arte in modo diverso. Così come davanti a un’opera, ognuno può vedere e sentire cose differenti. In questo caso le mie etichette rappresentano ciò che uno vede. Nell’arte c’è la critica che cerca di indirizzare il gusto, lo sguardo e le emozioni, ma in realtà la libertà risiede proprio nel sentire sempre cose diverse a proprio piacimento.
Così è un po’ come portarsi un piccolo quadro a casa? Esatto, è proprio il concetto di arte fruibile a tutti che mi piacerebbe far passare.
A settembre dello scorso anno il suo Brunello Riserva 2004 è stato premiato dall’International Wine Challenge come miglior vino rosso, qual è la caratteristica vincente del suo vino e cosa significa per lei questo premio? E’ un premio che ha significato molto per me e per l’azienda, perché la nostra è un’impresa collettiva, non è come dipingere un quadro, che è più una cosa privata. Il nostro è un lavoro di squadra fatto con passione da ogni singola persona. E in più il premio è un bene anche per tutta la zona di Montalcino che è stata ingiustamente bistrattata da inutili e infondate polemiche (NDR il riferimento è al “Caso Brunello” scoppiato tra il 2007 e il 2008 in cui venivano accusate di frode alcune aziende, colpevoli di aver tagliato il Sangiovese con altri vini provenienti dal sud Italia per ingentilire e ammorbidirne il gusto). Il mondo ha percepito male questa storia ed è difficile far cambiare idea al riguardo, visto che è stata una vera e propria bomba. Noi Italiani siamo bravi a distruggerci da soli, ci autodenigriamo invece di sfruttare i nostri punti di forza e rialzarci.
Tornando ai suoi vini, come mai la scelta di usare vitigni come Canaiolo Nero, Sirah e Cabernet Sauvignon oltre che Sangiovese Grosso? Questi vitigni sono stati scelti per essere la base del nostro “Supertuscan” Romitorio di Romitorio. Abbiamo pensato di incontrare anche il gusto internazionale attraverso un vino che combina vitigni diversi non prettamente toscani ma comunque legati al territorio e che qui trovano microclima e terreno perfetti.
È soddisfatto dei suoi vini, sono a sua immagine o sente ancora di avere tanta strada da fare? Il vino è un prodotto fantastico perché ogni anno è frutto di una nuova avventura con risultati sempre diversi e inediti. Volta per volta si arricchisce la memoria e si costituisce un’immagine cercando di essere sempre coerenti e all’altezza della qualità. Se percepiamo che un’annata non è eccellente e in grado di eguagliare la nostra qualità di sempre, semplicemente non facciamo uscire il prodotto. C’è sempre un margine di miglioramento, l’esperienza serve a questo, a progredire costantemente. Oggi la situazione nell’insieme è soddisfacente, a gennaio esce il Brunello 2006, un’ottima annata!
Oggi si sente più “artista” o più uomo del vino? Mi sento un vinaiolo-artista. Pratico l’arte del vino. Per me il filo conduttore di entrambe le cose è l’eccellenza nella qualità, l’una incontra l’altra in un inseguirsi continuo. Trovo ispirazione nel vino e viceversa.
Quanto crede che conti oggi l’immagine e la comunicazione per un’azienda vitivinicola? È molto importante. L’immagine è l’aspetto più delicato ed esposto, è la pelle del lavoro, deve rappresentare una realtà. Non possiamo raccontare cose non vere. La comunicazione deve essere credibile, essere sostenuta da fatti, altrimenti diventa controproducente e può provocare danni irreparabili. La forza della comunicazione sta in questo, nell’incisività del messaggio.
Cosa manca secondo lei alle aziende vitivinicole italiane per esportare i propri vini all’estero? Le aziende italiane devono pensare che il prodotto possiede delle caratteristiche locali, affonda le radici in un territorio ben definito, ma poi deve essere globalizzato. Non ti vengono più a cercare nella piccola realtà di Montalcino ad esempio. Il mondo oggi si è dilatato, ci sono nuove realtà che emergono ad una velocità impressionante. Cina, India, civiltà che quasi non pensavi potessero interessarsi al vino, ma oggi esistono e anche in maniera importante, e bisogna fare i conti con loro. Dobbiamo essere noi ad aprirci agli altri, farci conoscere e conoscere profondamente gli altri.
Mi parli della sua cantina inaugurata da poco. È come se fosse un magazzino degli allestitori, sculture ed opere d’arte si confondono tra le botti di invecchiamento per i vini. Queste figure insieme agli strumenti di lavoro sono lasciati lì quasi per caso, con l’idea che siano pronti per l’allestimento di una mostra. Non c’è una strategia, è il lavoro in divenire, l’arte che si fonde col vino, e quest’idea mi piace molto.