di Giuseppe Liuccio
“Settembre andiamo. È tempo di migrare/Ora in terra d’Abbruzzo i miei pastori/lascian gli stazzi e vanno verso il mare…” cantava D’annunzio, scrivendo in poesia la più bella storia della transumanza. Anche il Cilento lo è. Forse non coinvolgerà come la potenza di un campanaccio da parata appeso al collo di una vacca da latte che dagli alpeggi del Nord scende lentamente a valle o non stupirà con i colori delle corone di fiori legate alle corna del bestiame e quelli dei costumi della gente di montagna e l’allegria che accompagna la “desmontegada” degli alpigiani e valliggiani del Nord, ma anche quella che dal Motola e dal Cervati raggiunge la Piana di Paestum ha il suo fascino e la sua bella storia da raccontare. Io non sono il D’annunzio di “Settembre andiamo …” né Italo Calvino di “In viaggio con le mucche”, ma ci provo lo stesso a raccontare la transumanza dei miei pastori cilentani, che ha il suo fascino, i suoi misteri e le sue storie. E mi metto in viaggio verso i paesi dell’Alta Valle del Calore, Laurino, Valle dell’Angelo e Piaggine e fin lassù ai 2000 metri del Cervati per poi ritornare verso il mare di Paestum, che non è come l’Adriatico selvaggio dannunziano ma il Tirreno dei miti e della grande storia della Magna Grecia. Mi piacerebbe che lo facessero anche il Presidente e l’intera governance del Parco del Cilento e Vallo di Diano, ora che finalmente è finita la lunga, troppo lunga, e tormentata vicenda dell’insediamento e che urge recuperare il tempo, troppo, perduto, sempre che ne abbiano voglia e capacità.
La strada a fondovalle tra Laurino e Piaggine alterna tratti ombreggiati ad aperture a trionfo di sole. E castagni e bosco ceduo cedono spesso il posto a campi coltivati. Il fiume scompare e riaffiora. Squilla alla luce o si accovaccia nell’umbratilità della vegetazione riparia. In fondo il Cervati incombe con il suo carico di bellezza, di misteri e di paure. Mi pulsano nella mente e nel cuore i versi di Alfonso Gatto, compianto Amico e Maestro: “Dentro il bosco che medita nei verdi/chiusi dell’ombra e punta in alto i rami/in quel tessere fitto di richiami,/di silenzi improvvisi, dove perdi/memoria incamminato all’ascolto/vedere è solo credere ai tuoi occhi”: Lo accompagnai da queste parti alla fine degli anni sessanta del secolo scorso. Rendemmo omaggio alla civiltà di un paese, Piaggine, che aveva salvato da morte sicura un’aquila reale ed aveva improvvisato, nell’aula consiliare una sorta di “infermeria” per l’augusto pennuto. Oggi c’è, a sprazzi, lo stesso cielo degli occhi di Gatto, quello stupito ed assorto, intenso e misterioso, caldo e contagioso dei Grandi Spiriti. E per miracoloso transfert d’amore mi accompagna ancora la sua voce, mentre il cuore mi si gonfia di emozione allo spettacolo del Palazzo Ducale di Laurino, che, alle spalle occhieggia, possente, in bilico sulla rupe a dominio di vallata. Sulla destra fanno capolino, lustri di sole pallido, i tetti rossi delle case di Valle Dell’Angelo a scivolo di vallata con ferita di fiume a dilavare ciottoli di letto. Lassù, sull’Aufinito, nella grotta aperta ad orizzonti d’infinito, l’Angelo che dà il nome alla contrada testimonia dominio di Longobardi che trasferirono nel culto micaelico la ritualità del dio Odino. Riaffiora nel verde di campagna a ricamo di arabeschi da scialo di fioritura di ciliegi, peri e meli il campanile della chiesa Madre, arioso nella luce a riecheggiare il culto del patrono San Barbato. Di fronte il Cervati, a volte imbronciato con quel turbante di nuvole sul cocuzzolo, più spesso con il sole a rifrangenza del bianco della neve! Cosa questa insolita ad aprile, nella Settimana Santa! Il tempo per attrezzarci di racchette e sci di fondo e via su per i tornanti comodi con il variare della vegetazione ad ogni pianoro. Ci fanno da guide due forestali professionali, motivati e disponibili; amano la montagna e ne conoscono i segreti di flora e fauna e ne disvelano misteri e fascino di tradizioni. La cupola di un ciliegio in fiore è saluto festoso e profumato tra i castagneti pedemontani che sfidano il freddo di una primavera di neve nel tenerume delle prime gemme. Qualche contadino, a recupero di memoria familiare e collettiva ha valorizzato il vecchio stazzo con arredo di nocelleto a filari geometrici, a petto di collina. Più su un allevamento di cavalli allo stato brado rianima pendii dirupanti, dove è difficile stabilire il limite di demarcazione tra campagna coltivata e bosco intricato. regno del lupo. Una coppia di upupe in amore è piroettare colorato sui tetti diroccati di una casa abbandonata ad abbraccio di rovi. È la grazia segreta della montagna nel pispolio di voli ad ariosa conquista di spazi infiniti “Sono i galletti di montagna”, sottolineano le due preziose guide; ed io mi incanto a quelle creste screziate che fuggono ebbre e gelose di libertà e schive finanche di un clic di vanità della macchina fotografica. Sulla sinistra il Monte Vivo mostra, in un improvviso fascio di sole, fiancate a carico di neve, là dove una cappella votiva esalta pellegrinaggi a propiziazione di grazie di contadini e pastori “Questa è la tempa del triglio” sussurra Bartolo Scandizzo, esperto genius loci, a squarciar memoria di passato con gli stenti della fatica del vivere alla coltivazione di orzo e patate con l’eco di racconti di famiglia su presunti tesori nascosti nelle grotte o seppelliti nel ventre della terra. Il Calore, che si ingrosserà lungo il percorso, quassù è poco più di un rigagnolo che spumeggia tra i sassi, calando giù dalle sorgenti del Festola, nella nuvolaglia densa, oggi, sulla testa del gigante Cervati che, s’inforra sotto ponticelli arditi, riemerge nella trina di sorriso delle acque e canta solitario l’inno di libertà tra flora ripariale, a volte rada, più spesso intricata. È musica della natura il corso tortuoso spesso, lineare qualche volta, cristallino sempre. E l’acqua sciaborda abbondante nei fossati a bordo di carrareccia, dove esplode il riso delle primule a screziare tappeti gialli nel verde della fienagione spontanea. Ancora un tornante a conquista ardita di fuoristrada con la neve a pavesare di candidi tappeti i declivi ed eccoci alla “Fontana dei caciocavalli”, il primo ed il più accessibile dei rifugi che rievoca, nel nome, lavoro paziente e sapiente di pastori a cagliatura di saporito e pastoso formaggio di alpeggio. C’è sinfonia di messaggi nel silenzio assorto, rotto solo dalle scarpe nella neve soffice. Ha una sua voce profonda e misteriosa la natura in questo santuario “en plein air”, dove una selva di faggi è disseminazione a raggiera o saliscendi di candelabri a perforare il cielo. Hai ritegno finanche a parlare per non profanare la sacralità che conquista ed avvolge e ti penetra fin nel profondo. E qualche soffio lieve di brezza è eco di sussurri di elfi, fate e gnomi in segreti convegni d’amore sui pianori. Se chiudi gli occhi e presti orecchio ai racconti della tradizione ti arrivano i canti di notti all’addiaccio dal “Piano degli zingari”, dove uomini e bestie facevano sosta prima di scendere a valle. Venivano dall’altro versante, da Monte San Giacomo a popolare le fiere di bestiame per il mercato/baratto di ovini e caprini. E le serenate d’amore nostalgico laceravano i silenzi nel fuoco della luna e dei falò tra boccali di vino a scatenare melodie “a voce stesa” con il sottofondo di chitarre battenti ed organetti. E s’incantavano anche le volpi a timida fuoriuscita dalle tane e spiavano i lupi, sentinelle sui dirupi. Ed il pensiero corre alle grotte inaccessibili, covi/rifugi di briganti a taglieggiare viandanti incauti. E la nuvolaglia che dirada cenerina o si incupisce nerastra su alla cima mi figura lavoro paziente di boscaioli e fatica estenuante di carbonai, fauni fuligginosi a conquista di pane stento nel tabarro di fustagno. Non so se, per onorare il toponimo il Cervati fu davvero, un tempo, regno di cervi. Ma lo fu di sicuro e lo è ancora del falco pellegrino e della poiana, del nibbio reale e dello sparviero. Della coturnice e del gracchio corallino, del gatto selvatico e dell’aquila reale. Qui ti prende desiderio insopprimibile di panismo sacro ed hai voglia di confonderti e quasi annullarti nell’anima viva della natura che respira con gli alberi, gracida con corvi e sparvieri, ulula con i lupi e canta la litania dell’acqua a murmure perenne nella polla a miracoloso zampillo alle radici di due faggi o a gorgoglio/rigagnolo del salto di un embrice posticcio a trafittura di terrapieno. È istintivo sporgere le mani a conca e rigenerarsi a lavacro di purezza dell’acqua a svenatura del ventre della terra. Più su, a 1800 metri, una madonna dall’eremitaggio di una chiesetta veglia su boschi, campagne e paesi di tutto il cilento e non solo, ed è contesa d’amore e fede con quei di Sanza che scalano il monte dall’altro versante a reclamare possesso di santuario e statua miracolosa. Lassù c’è anche l’ultimo rifugio fresco di recente apertura. Mi piacerebbe consumarvi caciocavallo e salumi con abbondanza di vino forte, frizzante e generoso. Ma i cirri cupi della cima minacciano tempesta in pieno aprile e sconsigliano l’ultima ardita scalata. Ci tornerò magari nella stagione giusta quando i pianori che sfiorano il cielo si tappezzano di fiori di lavanda ed il sole dardeggia nella canicola. Lo prometto a me stesso con l’assenso entusasta di Bartolo Scandizzo che mi sarà compagno di avventura, mentre la macchina imbocca la carrareccia della discesa a margine di fossati a cantilena d’acqua e sorriso di primule, un puledro bizzarro nitrisce spavaldo o per protesta per la nostra intrusione nel suo regno di silenzio smemore o perché ferito d’amore per un cavallina che lo guarda con gli occhi acquosi di tenerezza e desiderio.