di Giuseppe Liuccio Ripropongo, qui di seguito, alcune riflessioni che ho già fatto in altre occasioni e che in una breve vacanza cilentana, rivisitando con occhi d’amore i paesi della mia infanzia, riscopro attualissime. Le Langhe, che trasmigrano da Cuneo ad Alba e fino ad Asti, sono colline a ricamo di villaggi con case a corona di chiese e campanili agili a dominio di declivi, dove è festa di vigneti. Qui si materializza la storia nobile del Monferrato ed è passata la grande letteratura di Flaiano e di Pavese. Qui è ambientato un bel romanzo di Nico Orengo “Di viole e liquirizia”, una storia delicata e struggente, fatta di solitudini che s’incontrano e di sapori che sanno di antico, con gli affettati di sapiente lavorazione, il pane che odora di forno a legna e la corposità profumata del Barolo, del Barbaresco e del Nebbiolo. Ed il racconto coglie le ferite che la vita incide negli uomini e nei luoghi. E le Langhe diventano “cult”, più di quanto non lo siano già, per un turismo di nicchia, che fa della campagna coltivata un santuario da pellegrinaggio e del lavoro un’epopea da condividere e cantare nella calda e contagiosa ospitalità dell’accoglienza. E, qualche anno fa, è arrivata la “santificazione” laica dell’Unesco che dichiara il territorio “patrimonio dell’umanità”, il cinquantesimo per l’Italia che batte il primato nel settore. Legittimo l’orgoglio di identità e di appartenenza di Marco Revelli che ne esalta “il mosaico di colline di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Qui ci si incanta di fronte alla natura umanizzata dal lavoro dell’uomo, o per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni, Cultura scolpita nella terra!”. I territori della “kora” pestana” potrebbero essere le nostre Langhe con identica cultura scolpita nella terra, nel cuore antico dei paesi. Ne ho scritto a più riprese, ma torno volentieri sul tema. Dal “Varco Cilentano” i ricchi mercanti della potente Poseidonia scalavano la collina di Eredita ed approdavano al passo di Finocchito per scendere speditamente al corso dell’Alento e su zattere veloci raggiungere i Porti Velini. Fu la strada del commercio antico e ne restano tracce, purtroppo sconosciute ai più, nel “castrum” di Convignenti. Potrebbe essere una passeggiata sulle orme della storia e a scoperta, tra l’altro, di transito di monaci italo/greci, come testimonia la bella chiesa di San Nazario, a carezza di venti saturi di profumi di campagna e spalancata sulla vallata, come, d’altronde, quella di San Nicola a Monte Cicerale, che vanta, tra l’altro, palazzi gentilizi nel centro storico compatto. Cicerale ostenta gloria dei Carafa a dominio di feudo. E Corbella rievoca potenza di “castrum” a postazione/presidio di strada di penetrazione verso Monteforte, che fu gastaldato longobardo lungo l’Alento interno. Il Solofrone riannoda il mare a Giungano fino alla gola di Tremonti con l’acqua che dirupa nell’abisso dall’ocra delle rocce a catapulta e riecheggia l’urlo di Spartaco all’ultima battaglia. Trentinara aperta ai venti e al mare dissetò i pestani con un lungo acquedotto di cui restano tracce all’ombra dei castagneti e nelle campagne assolate. Capaccio porta nel toponimo ricchezza di sorgenti, che non ha. Però fu sede di diocesi influente e di feudo potente e di nobilato litigioso: Un bel campo di ricerca per studenti a caccia di scoperte. La pianura disseminata di masserie e palazzi baronali è miniera tutta da scoprire, nei gioielli di architettura rurale, di storia di agricoltura e latifondo. Salendo dal mare di Agropoli e Castellabate verso l’interno a conquista di paesi, dappertutto le campagne narrano storia di lavoro con vigneti di geometrica fattura che gonfiano umori al sole, con le “passolare” ad inzuccherare “moscioni”, con i castagneti che esplodono nell’uovo rasposo del riccio a fuoriuscita, nella stagione giusta, di marroni lustri, pulcini pezzati a fuga dalla cova, con i ricchi sapori di una cucina antica, con i rigagnoli d’oro fuso dei frantoi, con la prismaticità estrosa dei maestri artigiani, con le statue lignee che, a più riprese, nel corso dell’anno caracollano tra strade e vicoli nella danza dei portatori alla rifrangenza delle luminarie tra esplosioni festose di granate a ricamo di cielo. Anche questo nostro territorio fu “santificato” patrimonio dell’umanità” dall’Unesco e per ben due volte, come area protetta, prima, e come dieta mediterranea, dopo. Poteva e doveva essere immesso nel mercato virtuoso della fruizione turistica. Ma è stata una occasione non opportunamente colta e, in parte, sciupata per pigrizia mentale e totale mancanza di intraprendenza e di cultura politico/gestionale di chi ha amministrato il territorio (Parco, Comunità Montane, Amministrazioni Comunali, Fondazioni, Consorzi, Gal e chi più ne ha più ne metta). E’ stata colpa di omissione di quanti hanno portato a spasso la carica, con o senza fascia tricolore, più per la vanità dell’apparire che per la concretezza e l’eticità dell’essere. Invece si poteva ipotizzare una progettualità di fecondo sviluppo. Si può ancora fare, sempre che ci si convinca di fare rete e sistema, collegandosi al flusso turistico che popola Paestum, che è e resta straordinario punto di approdo per i tanti appassionati dell’archeologia e della grande storia, da un lato, e del mare dei miti e della seduzione delle sirene, dall’altro. Il patrimonio dei paesi della “kora” è una risorsa in più che può contribuire a qualificare, diversificare e destagionalizzare l’offerta turistica. Nel segno della CULTURA E’ una battaglia da fare e da vincere a condizione che i sindaci dei paesi delle colline si scrollino di dosso indolenza, pigrizia mentale e qualche residuo di sciocca gelosia, guardino al di là del proprio campanile e si abituino a pensare e programmare insieme e alla grande. Il rinnovo della governance del Parco potrebbe essere l’occasione da sfruttare al meglio puntando, tutti insieme, sul nome credibile ed affidabile, così pare del nuovo Presidente e, più ancor sul Governatore della Campania, che crede sulle enormi possibilità di sviluppo del Cilento. Gli operatori più avveduti lo hanno capito da tempo ed investono in questa direzione. A questo pensavo qualche giorno fa incantandomi ad ettari ed ettari di vigneti di geometrica fattura che fruttificano nelle assolate colline incontro al sole di Convignenti e di Cannito, dove Maffini, da un lato, e Peppino Pagano, dall’altro, hanno creato il miracolo di aziende competitive sui mercati. Lo stesso dicasi per De Conciliis e Rotolo sui petti di Prignano e Rutino. E’ uno spettacolo straordinariamente bello che non ha nulla da invidiare ai paesaggi provenzali, anzi con qualche pregio in più: la monumentalità della Magna Grecia ad un tiro di schioppo e l’orizzonte sconfinato del mare a conflagrazione di luce da toccare con mano. E non è cosa di poco conto. Cominciano a capirlo anche gli operatori dell’accoglienza che puntano sull’enogastronomia come settore strategico per la promozione del turismo di qualità, anche se c’è il rischio della banalizzazione della dieta mediterranea con il pressappochismo e l’improvvisazione di presunti esperti. Mi piacerebbe, appunto che su certi temi non si banalizzasse e si conservasse, invece, la consapevolezza della sacralità e della riservatezza che noi quotidianamente andiamo a tavola con gli dei, quella stessa dei nostri Patri Contadini, che seppero creare e gustare piatti poveri ma strepitosi come la ciambotta, i cavatielli. li fusiddi, l’acquasale gustati senza clamori sull’aia di campagna o sotto il pergolato di casa. E nel silenzio rotto solo dall’ultimo concerto dei grilli o con il sottofondo della nenia della risacca alla battigia. Vorrei che nessuno dimenticasse la Bellezza della Poesia della mia terra anfibia, profanandone il silenzio nell’incanto/culto religioso, nella consapevolezza che “non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto” come scriveva un langarolo dello spessore letterario di Cesare Pavese, che conosceva il calore umido che sale dalle pietre del muricciolo su cui troneggia la vite. E fu lui anche a scrivere in “Lavorare stanca”. “Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo/un grande uomo tra idioti o un povero folle/per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Io quel silenzio l’ho vissuto nell’alito delle foglie nella sera con mio nonno e mio padre, da cui ho appreso una bella lezione di vita, quella stessa che appresero in riva al mare dagli avi pescatori i miei coetani della costa. E sì, perché la mia, la nostra, è una terra anfibia, e ne ho spiegato il perché in un mio libro, che è stato scelto e premiato tra i finalisti del Premio Internazionale “Città di Castello”. Per ora io e quelli che, come me, si sentono e di fatto sono eredi di contadini e pescatori, anzi di marinai di montagna e contadini di mare con le facce cotte di sole, noi chiediamo rispetto sacro per questa memoria, che è scritta nelle scanalature delle rughe che sanno di lavoro, nelle mani le venature di salmenti, se di montagna, le incrostazioni di remi, se di mare, e tutti, comunque, portano nel corpo le stimmate di eternità della bellezza della poesia del lavoro. E siamo in buona compagnia con Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Nuto Revelli, Giovanni Arpino, Nico Orengo onorati nella loro terra che ha per fortuna il Culto della Cultura e, quindi, della Bellezza. Da noi un po’ meno. Purtroppo. Qui da noi impera la vanità dell’apparire e non la sacralità della concretezza dell’Essere. Ma c ‘è sempre tempo per invertire la tendenza. Io ho fiducia e per questo continuo a cantare la BELLEZZA con la forza della POESIA.
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