di L. R. Mentre il conferenziere commentava la relazione distribuita al selezionato uditorio costituito dai delegati parrocchiali, sul palcoscenico, alle sue spalle dominava una gigantografia con la scritta “ABITARE, voce del verbo… Le delegate della mia parrocchia – due dinamiche maestre d’asilo, abituate ad usare in modo appropriato le parole e illustrare con precisione il significato dei simboli ai loro bambini, ed una studentessa di teologia prossima alla laurea magistrale – mi facevano notare che nelle schede di preparazione inviate dal solerte delegato vescovile per la pastorale tema e titolo erano diversi, Abitare: “voce del Verbo”. Sottigliezze, dirà qualcuno. Invece no, perché alla fine della prima giornata di lavoro del convegno pastorale diocesano a dominare è stato il riverbero di una relazione densa di spunti, ma segnalatasi per l’indeterminatezza dei concetti generali. Insomma non si è sperimentato il coinvolgente alitare dello Spirito; nel teatro non si percepiva che ad abitare vi fosse veramente il Verbo perché a prevalere erano esercizi retorici sul verbo. Probabilmente a determinare ciò sono stati la formula del convegno, che si ripete stancamente da alcuni anni, ed un argomento talmente generico da risultare dispersivo. Del resto, le relazioni di sintesi relative ai lavori preparatori del convegno predisposte dalle singole Foranie confermavano questa sensazione; i contenuti rimandavano agli enunciati di quelle presentate dai gruppi durante il convegno del 2015. A proposito di quelle approntate quest’anno, alcune sono risultate molto teoriche, altre hanno dato la sensazione di essere state preparate già prima della riunione del rispettivo gruppo, come induce a ritenere quella relativa alla scuola. L’assemblaggio dei temi ha fatto esclamare ad una maestra seduta al mio fianco: veramente in due ore – tanto il tempo concesso – hanno trattato tutti questi temi? Sono comunque emerse alcune proposte meritevoli di essere prese in considerazione, come la necessità di far rete anche per recuperare il senso di appartenenza alla comunità diocesana. Inoltre è stata manifestata l’esigenza di appropriarsi degli stimoli che provengono da una liturgia ben partecipata per procedere ad una concreta animazione delle opere di misericordia. A proposito delle problematiche connesse al matrimonio si è ribadita la necessità di essere positivi e propositivi e non cedere a facili condanne perché la famiglia è un soggetto attivo di evangelizzazione. Circa la Caritas, si è proposta la costituzione di centri di ascolto comprensoriali per aiutare i poveri non solo materiali, mentre si sollecita una particolare attenzione per la precarietà economica ed esistenziale dei giovani. Non è stata taciuta la persistente reazione critica dei ben-pensanti alla vera accoglienza dei migranti e denunciata la speculazione in atto nei centri di accoglienza. Si è proposta anche la creazione di un piccolo fondo finanziato dai comitati festa col proposito di fare nostro l’invito di papa Francesco ad operare con coraggio, pronti ad ascoltare e dare sfogo alla capacità di sognare un mondo migliore. Circa l’ambiente si è giustamente affermato che i giovani sono meglio preparati sul tema; inoltre occorre rimodellare la nostra mentalità per considerare il lavoro una missione e porsi il problema della precarietà che assilla soprattutto i giovani in un contesto che fa intravedere un marcato scollamento tra fede e vita per l’azione di tanti sfruttatori e la passività di tanti pigri, una massa che ostacola la ricerca di nuovi stili di vita per radicare nel quotidiano il vangelo. Coinvolgente la presentazione che dei giovani ha fatto la relatrice del gruppo. Dopo aver precisato che, dalla prevista riflessione dei giovani, si è passati, per una loro sostanziale assenza, a discutere sui giovani presenti ed attivi nella chiesa locale, anche se i più sono lontani, indifferenti e diffidenti. La loro prima esigenza è entrare in relazione, coinvolti in esperienze credibili, che aiutano a rispondere concretamente alle domande di senso. A questo proposito occorre utilizzare linguaggi nuovi non per moda, ma per comunicare adeguatamente. La chiesa non deve parlare dei giovani, ma con loro, che non sono un problema, ma una risorsa, una galassia in attesa dell’incontro. Coraggiosa la denuncia della mancanza dell’ufficio pastorale già da un anno, accompagnata dalla proposta di affidarlo ai giovani ritenendo poco proficuo investire di questa responsabilità un religioso che non conosce il contesto nel quale deve operare. Giusta anche la rivendicazione di assegnare i mezzi necessari per poter adeguatamente operare. Certamente la lentezza con la quale si procede nell’assumere decisioni a livello centrale contribuisce ad aggravare un problema la cui portata e la cui impellenza sono parsi evidenti a giudicare da quanto è emerso nelle relazioni di tutti i gruppi. Sentire giovani parlare con tanto entusiasmo ha riacceso la speranza dell’uditorio, che ha avuto la percezione di essere tornati al tema proposto inizialmente. L’eco della “voce del Verbo” veramente si è percepito quando a relazionare è stata la volontaria che riferiva le considerazioni emerse nel gruppo impegnato a riflettere sulla pastorale sanitaria. Le accorate parole sono state sintetizzante nel coinvolgente interrogativo: “Come abitiamo la sofferenza?” Tale esperienza può condurre alla diffidenza verso Dio ma, ripercorrendo il pellegrinaggio di Giobbe, aiuta ad un cambio di rotta per approdare ad una fede matura e redentrice. Estremamente impegnativo per il presbiterio – rappresentato nei gruppi da appena 18 sacerdoti – è stata l’affermazione finale secondo la quale cardine di questo percorso possibile rimane il prete. Quelle ascoltate sono proposte che vanno articolate, ma certamente impegnano i vertici della diocesi ad assumere maggiore determinazione, presenza, incisività nell‘approntare un programma di azione pastorale condiviso dalla comunità. Esso implica un’azione strutturale – come ha precisato il relatore nella prima giornata – che richiede autentico discernimento della specificità del nostro contesto, da considerare nell’attuale congiuntura per superare il rischio di far apparire la chiesa locale sempre più un sistema chiuso, condannato alla solitudine dell’incomunicabilità. Perciò, rispetto ad una mera analisi semantico-grammaticale del verbo, occorre veramente abbandonarsi all’abbraccio del Verbo. E’ Lui che garantisce ad ogni periferia di diventare centro. Infatti è il suo dono dell’Eucarestia a rendere il nostro tempo kairos, a trasformare la stanchezza del quotidiano in energica carità verso i fratelli. Cristo rimane l’unica adeguata risposta agli interrogativi dell’anima e del corpo, dell’uomo e della donna, dell’individuo e della società, non più segnati da inconciliabile separatezza ma armonizzati nell’abbraccio col Padre, che si specchia nell’azione del Verbo perché lo Spirito riscalda la casa nella quale noi possiamo gioiosamente abitare.
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