di L.R. Ai margini del processo di modernizzazione, il Cilento ha superato in modo precario e squilibrato tradizionali ostacoli determinati dai condizionamenti dei circuiti interni ed internazionali del mercato e dalla povertà dei prerequisiti economici di base. Le certezze del meridionalismo classico hanno ceduto il passo alla sperimentazione di modelli frutto di sofisticate analisi teoriche, dalle quali si evincono dati ancora più frammentati e contraddittori. Invece, il sistema Cilento, al suo interno segnato da una molteplicità di situazioni, va analizzato in modo organico usando categorie interpretative e non solo descrittive. Da qui la necessità di esaminare matrici storiche e ruolo sociale degli attuali quadri politici, burocratici e tecnici, composto in prevalenza da personale impiegatizio, il cui assorbimento nelle amministrazioni regionali e sub-regionali ha solo in parte ammortizzato tensioni sociali determinate dall’abnorme crescita della disoccupazione intellettuale. La situazione richiede adeguata preparazione al ceto dirigente locale per individuare efficaci fattori propulsivi di sviluppo. Una maggiore esigenza di partecipazione ha consentito di porre in termini nuovi il problema esigendo che rinnovati aneliti istituzionali si accompagnino a stili amministrativi in grado di assicurare effettiva dinamicità all’autogoverno locale e alla produttività sociale del potere pubblico. Tuttavia, proprio quando il processo decisionale sembra voler corresponsabilizzare maggiormente la dirigenza locale, nell’opinione pubblica è cresciuta una sfiducia verso un ceto i cui comportamenti danno spazio ad allarmate analisi per il ripetersi di sconcertanti cronache giudiziarie e condannabili pratiche amministrative. Frequenti accuse di eccessive ingerenze dei partiti, penetrati in ogni articolazione della vita civile con gravi conseguenze sulla moralità e sulla funzionalità, danno ragione a chi ritiene consolidata la logica spartitoria, che sacrifica il bene comune a pretese particolari. Ogni progetto di regolamentazione territoriale e di gestione è condizionato da un’interminabile fase di mediazioni compromissorie operate da gruppi impegnati a far prevalere logiche ed interessi settoriali. Si sono favoriti saldi ed organici legami di potere tra sistema politico-partitico e realtà locale. La gamma di comportamenti dei politici di professione consente di cogliere meglio la transizione tra l’antico ceppo piccolo e medio borghese, legato ad arcaici meccanismi di mobilità sociale, ed il neoterziario politico-professionale formatosi in strutture polimorfe ed interclassiste. Il gruppo dirigente, dopo aver liquidato le residue stratificazioni culturali legate al galantomismo della borghesia terriera, grazie ad una spesa pubblica concentrata soprattutto nel settore sanitario col conseguente emergere di tanti medici prestati alla politica, è riuscito a controllare l’attribuzione delle risorse trasferite dal bilancio statale a quello regionale e da questo agli altri enti intermedi. Intanto la gestione tecnica delle procedure di spesa ha rafforzato la funzione dei quadri burocratico-intellettuali i quali, mediante il controllo interno di partiti e sindacati e la diretta assunzione delle rappresentanze nelle istituzioni pubbliche, sono i veri detentori del potere politico ed amministrativo a livello locale, capaci di gestire il processo decisionale orientando l’opinione pubblica in misura simmetrica all’incremento della spesa pubblica. Per anguste logiche di reclutamento e le modalità di selezione interna invalse nei partiti e nei sindacati, criteri improvvisati o indefiniti di assunzione dei quadri tecnico-burocratici favoriscono il consolidarsi di un gruppo vischioso, il cui comportamento s’ispira a pragmatismo con scarsa tensione etico-civile. Ne deriva la difficoltà di un’effettiva riforma della prassi amministrativa nei piccoli e medi comuni del Cilento, dove l’integrazione delle nuove istituzioni con la popolazione risulta più difficile. Si solidifica, perciò, il clientelismo in tutte le sue forme. Amicizie, parentela, rapporti contrattuali di subordinazione, trasformismo politico animano una prassi che consente di strumentalizzare a fini locali i programmi nazionali. La struttura clientelare lentamente si è confrontata con le dimensioni di massa presenti anche dalla società cilentana, dove la domanda politica si è articolata in una rete organizzativa che coinvolge i rapporti di produzione e le forme di dominio mediando tra interessi diversi, a volte contrapposti, funzione che esalta il depositario del concreto potere di persuasione. Così, le elezioni comunali, base dell’esperienza partecipativa, non diventano estrinsecazione della volontà collettiva, ma occasione di lotte claniche; i criteri seguiti nell’individuazione di liste contrapposte seguono sempre gli stessi schemi. Anche quando si proclamano radicali rinnovamenti, finalità ultima rimane il monopolio nella gestione della finanza pubblica. Gli interventi non animano il processo produttivo; in un contesto statico e in una economia di sussistenza ci s’impegna, in genere, per preservare interessi speculativi nel settore immobiliare grazie alla ristrutturazione urbanistica disciplinata da piani regolatori comunali stilati “ad usum dephini”! Il localismo di questa prospettiva e l’intensità di questi legami consolidano perifericità e dipendenza da relazioni locali pre o meta-politiche, una statica omogeneità per la sostanziale stabilità del voto anche quando cambiano i vincitori. Così fratture socio-economiche, storiche, psicologiche continuano a pesare sulle possibilità di sviluppo, di pianificazione e di governo del territorio, situazione poco rosea, che rende arduo il compito di amministratori veramente motivati e disposti a minare l’egemonia dei soliti noti che hanno ricevuto immeritate conferme.
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