di L.R. È sempre difficile rispondere ai tanti quesiti che pone l’esperienza di una giovane madre la cui vita è stata distrutta dalla malattia. Il peso è tale da indurre ad esorcizzare anche le parole per cui si fa ricorso a perifrasi del tipo: ci ha lasciati, se ne è andata a miglior vita, come se la defunta avesse scelto di rimanere inerme nella bara. Intanto, gli attoniti testimoni del tristissimo evento ancora una volta registrano nel loro animo la vittoria della regina del nulla, la quale risucchia tutti nel buco nero della fine senza senso. Comprensibile lo stato d’animo dei familiari, impegnati in una drammatica partita a scacchi con la malattia, subdolo avversario che suscita illusioni, accarezza speranze, ma alla fine determina sconfitte. Per evitare di dire banalità alcuni consigliano il silenzio dello stoico, altri si adattano ad una impotente rassegnazione, ma certamente nessuno è capace di apportare sollievo alla religione degli affetti che registra un’assenza, un vuoto, l’amaro dell’addio! Ancora una volta sembra giustificata la protesta di Giobbe! Per me questa esperienza è stata ancora più sconvolgente perché durante il rito in Chiesa si muoveva liberamente tra i banchi un bambino di quattro anni, il figlio della dottoressa. Ho immaginato di vedere riuniti in un abbraccio impossibile il presente-futuro di quell’innocente e la bara con la madre, un presente immobile e senza futuro, una simbiosi alla quale faceva da cornice la comunità in pianto. Perciò anche io ho chiesto a Dio: dove eri? Perché la morte e in questo modo? Perché questo tragico accanimento contro una donna? La risposta l’ha fornita il padre, che ha regalato a tutti noi una testimonianza che aiuta ad andare oltre il pianto e scoprire il vero senso della vita cristiana. Per motivare la sua affermazione egli ha fatto riferimento alla vita della figlia, di come ha detto sì a quell’esperienza. Mi sono ricordato allora del grido straziante di Gesù sulla croce. In esso si riflette la misura della sconfitta di chi è sottoposto allo strazio di un dolore indicibile ed osceno. E’ un grido che pretende una risposta ai perché che angosciano. La si comincia a trovare se, nel tumulto della rivolta o nel coacervo di reazioni contro un destino baro, si riflette su un dato sperimentato nel profondo dell’io grazie alla fede: nell’inventario minuzioso e preciso della morte manca all’appello uno di noi, che l’ha sconfitta. Allora è possibile aver ragione di lei anche quando si è crocifissi dalla malattia. L’incrollabile fiducia di Giobbe si trasforma così in speranza realizzata, un immergersi definitivo nell’amore di Dio, consapevoli che per sua grazia continuiamo ad essere per l’eternità persone nella nostra individualità arricchita dalla luce della benevolenza del Padre. Se si considera questa prospettiva solo parole, allora non rimane che precipitare nel dolore senza senso circondati dall’alone dell’assurdo. Invece, per chi ritiene che abbiano almeno una probabilità e vi si aggrappa non ci sono alternative migliori. Questi erano i miei pensieri mentre cercavo di organizzare l’omelia facendo riferimento alle quattro versioni evangeliche della morte di Gesù. L’assemblea mi seguiva, ma era concentrata più sulla bara che sulle mie distinzioni tra il grido in Mc, una partecipazione di Gesù al nostro destino mentre sperimenta il nulla della fine dimostrando di conoscerne il rischio. Perciò nessuno può sentirsi abbandonato, soprattutto se, come si legge in Lc, le sue ultime parole sono “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”, citazione del salmo 31, con le quali si affida a Lui, una fiducia in attesa del destino finale perché qui sulla terra “Tutto è compiuto”, come riferisce Gv. Intanto, Mt descrive la reazione degli astanti: i curiosi, gli avversari, il centurione, le donne in pianto, mentre Dio, assente durante la passione, ora entra in azione con dei segni che determinano conseguenze subito evidenti: l’apparente fallimento si trasforma in vittoria; perfino il centurione, avendo costatato il comportamento inusuale del crocifisso, conviene che si tratta di un “uomo giusto”. E’ il miracolo della morte dell’innocente, che illumina e rende gloria a Dio. Perciò, concludevo, anche noi abbiamo la forza di bisbigliare alla defunta un arrivederci perché fidiamo sull’esperienza concreta del vero ADDIO. Pensavo di aver reso con queste battute un buon servizio al tentativo di trovare una ragione all’ingiustizia di una donna di 39 anni, una dottoressa dedicata al lavoro e che affiancava alla competenza professionale una coinvolgente carità cristiana, morta per un male che lei seguiva giorno per giorno leggendone da esperta radiologa l’evoluzione. Ma la sorpresa mi è venuta dalla sua missione di mamma e riflessa nella partecipe serenità di quel bambino di quattro anni. Alla fine della messa, interrogato dal nonno, ha pubblicamente fornito la testimonianza più coinvolgente, toccante, evangelica della sua vicinanza alla madre, rendendo concreta la preghiera di ringraziamento che Gesù rivolge al Padre per aver rivelato la vera sapienza ai piccoli. Perciò non potevo non chiudere la celebrazione della messa con la benedizione finale impartita dal bambino. Quella manina implorante e benedicente era anche la vita della defunta che continuava e la nostra speranza di concreta salvezza radicata nella storia della misericordia di Dio.
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