Federica D’Ambrosio a cura di Marcella Ferro Mi arrampico con lo sguardo sui segni lasciati da Federica sulla carta. Tracce di un’anima, di una fantasia finalmente libera di riversarsi sulla superficie senza il timore del giudizio altrui, atteggiamento mutuato dai bambini che nella loro purezza si espongono al mondo senza pudore. E’ questo il tempo di una poetica delicata, infantile per certi versi, è il tempo di mettere a posto le coordinate del proprio linguaggio immaginifico. Con le radici ben piantate l’albero Federica getta lunghi i suoi rami nel cielo e prova a cogliere le stelle, scrivendone il numero su un pezzetto di carta ma senza più chiuderlo a chiave in un cassetto. Mutevoli le forme e le figure dei lavori di questa giovane donna salernitana non viaggiano più su binari paralleli, la ceramica diventa tutt’uno con la grafica, lo smalto ancora caldo duella con la freschezza dell’acquerello. Le due tecniche si sovrappongono, si avvicinano e si allontanano, si scontrano e poi s’incontrano ma una cosa è certa non riescono più a sopravvivere visivamente l’una senza l’altra. Il suo è sì un racconto personale, privato fatto di sogni, aspirazioni, ricordi, di pensieri sussurrati alla luna, lanciati fra le increspature schiumose del mare o nei cieli tersi o cupi di città, raccolti dalla superficie concava di un ombrello sotto la pioggia o infine abbarbicati su lunghe scale sospese nel vuoto. Tuttavia a guardarli questi racconti fatti d’immagini, narrati attraverso parole apparentemente incomprensibili, non si riesce a restarne fuori, non si può a non restarne irretiti. Federica ci parla di noi, tocca le corde del nostro sentire con la punta delle dita e lascia che ne venga fuori un suono gioioso, vibrante, universale. Con grande sensibilità ci indica quelle lunghe ali che ci trasciniamo dietro senza più vederle, senza più spiegarle per alzarci in volo. Siamo noi quegli angeli piovuti dal cielo, ciascuno con la sua storia, con le sue amarezze ma anche con le sue vittorie. Siamo quegli angeli che cercano un sorriso, zingari, liberi che non starebbero nelle processioni o nelle scatole dei presepi. Siamo in sostanza quegli angeli camuffati da persone ordinarie che vivono vite ordinarie, perché la figura angelica si trova a metà strada tra ciò che è materiale e ciò che non lo è. L’angelo è l’essere di confine che rende la materia metafora dello spirito, così come la luce reale lo è di quella inaccessibile. In lui l’anima si confonde con la materia, tornando a essere pura luce, uomo d’aria e tornando, infine, finalmente libero dalla tirannia dell’effimero.
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