di Giuseppe Liuccio
Non è facile rompere la scorza del maschilismo, marchiato indelebilmente nel tessuto della nostra società e che si macchia spesso di violenza fino al femminicidio, come testimoniano frequentemente le cronache in Italia e nel mondo. A pensarci bene ha radici antiche, datate Vecchio Testamento, connaturato all’idea stessa di Creazione. Eva nacque da una “costola” di Adamo, a sigillo perenne di subalternità nei secoli. Al primo impulso di autonomia si macchiò di peccato, con la sacra bolla di “originale” a sottolineare le stigmate eterne di una colpa. Non mi è mai piaciuta, e l’ho sempre rimossa con fastidio, la “favola” delle nostre origini nella cornice gioiosa del Paradiso Terrestre, vissuto e mitizzato come l’Eden perduto per quel triangolo trasgressivo, Adamo-Eva-demonio tentatore con la complicità di una mela a sollecitare e solleticare tutti i sensi: la vista nella luminosità del colore, il tatto nella levigatezza della forma/rotondità, il gusto nella pastosità della polpa, l’udito nel fruscio del dondolo a carezza di vento, l’olfatto nella intensa pregnanza del profumo. Io, da buon pestano della kora, ho recuperato ed esaltato la mia grecità nel rigore degli studi. Ostento, con legittimo orgoglio, una visione laica e sanamente pagana della vita e, pertanto, mi convince e, comunque, mi è più congeniale, il “mito” narrato da Platone nel “Simposio”, per bocca della ispirata sacerdotessa Diotima: Giove spaccò i due con un colpo d’accetta l’uomo primigenio ermafrodite ed autosufficiente nella sua rotondità di giara e ne fece due entità, due metà, che, da allora, con reciproco sottile gioco di seduzione, si cercano e si rincorrono. Monadi impazzite nell’universo immenso dell’amore, a recuperare l’unità perduta. Qui, di sicuro, c’è assoluta parità di condizioni nella non facile gara di sanare la lacerazione della “duplicità nell’uno dell’amore”. E nel giorno dell’orgoglio femminile, senza nulla togliere alle battaglie per le legittime rivendicazioni agitate nella bandiera d’oro della mimosa che ostenta grappoli di sole e, pur caricandosi di lotta, esplode in tenera carezza a gara di velluto, mi piacerebbe che le donne della mia terra con la mediterraneità nelle lame degli occhi, nella luminosità del sorriso, nella carnalità delle forme, si riappropriassero della identità delle nobili ascendenze greche. E, a prestare orecchio, mente e cuore a storie e miti delle origini, la donna si materializza nella prismaticità della sua personalità: strega, sirena, dea e madonna. Alla foce del Sele approdò Giasone con il prezioso carico del vello d’oro, perseguitato dal rimorso/incubo di Medea accattivante nell’arte del sedurre e travolgente nella generosa passionalità dell’amore quanto perfida e lucidamente spietata nella trama macabra della vendetta. Più giù, sullo scoglio bianco di Licosa, il mare canta a nenia di risacca o grida nell’ira dei marosi l’offesa della sirena gabbata ed umiliata dalla beffa di Ulisse, nudo di iodio e sale crocifisso all’albero maestro della sofferenza, ma indenne e vincitore alla dolce dannazione della seduzione. A chiusura del Golfo Palinuro, nelle notti di plenilunio, reitera il suo sogno di amore negato nel ricamo di trina di un effimero velo di sposa di schiuma sul sepolcro di Camerota, ninfa tanto bella quanto insensibile alle profferte d’amore dell’incauto amante. Nella pianura che fu approdo degli Achei con il pietoso pantheon di lari e dei, Era Argiva, che fu, poi, Cerere e Cibele, testimonia, con templi maestosi, metope votive e pitture vascolari, la mitizzazione della donna/dea pronuba di fecondità. Sulla collina del Calpazio dalla Cattedrale/Santuario la mano di una Madonna espone, dalla prigionia di una nicchia, un “granato” esploso nel riso della maturazione. E i chicchi (rosso, rosa, viola con striature di bianchiccio) reiterano il miracolo perenne della vita. E quei colori adombrano la ciclica ferita del mestruo, che fu demonizzato a stigma di lordura e di peccato e di intrugli di megere/fattucchiere nel medioevo dell’ignoranza e della superstizione, che vede la donna, oggi come ieri, dea e madonna della procreazione e della perennità della specie. E dalle pagine di storia dei nostri Padri emergono e brillano di luce eterna Saffo, Teano, Gorgo, Aspasia, Lisimaca, Neera … Ma io vorrei indicare come modello, soprattutto, Ipazia, matematica, astronoma e filosofa del periodo ellenistico. Fu donna apprezzata e rispettata e, per la sua vasta cultura, occupò posti rilevanti di insegnamento, di organizzatrice culturale e di formazione delle coscienze nella nota Scuola di Alessandria, dove divenne l’ultima rappresentante del platonismo con connotazioni religiose del paganesimo declinante. Entrò in conflitto con Cirillo, vescovo della città, e fu osteggiata e perseguitata. Lei resistette con coraggio. Ma anche, e, forse, soprattutto, per essere donna e, per giunta, bella, cadde in un agguato di fanatici, che la trascinarono in una chiesa, la denudarono e fecero scempio del suo corpo con cocci taglienti fino alla morte. La consacrarono, così, alla posterità come martire laica del libero pensiero, e simbolo crudele ed attualissimo del femminicidio. E, per questo, è stata protagonista di romanzi, poemi, pièces teatrali, sceneggiature cinematografiche, fonte di ispirazione di pittori e musicisti in ogni epoca e in tutti i continenti. Mi permetto di suggerirla alle donne come tema di dibattito per la loro festa.