di Giuseppe Liuccio
Il 25 marzo u.s. il quotidiano La Città di Salerno ha anticipato una notizia che, se vera, sarebbe un’autentica bomba. L’attuale presidente/commissario del Parco del Cilento, l’avvocato Amilcare Troiano, in prorogatio da un anno e la cui scadenza è prevista per l’11 aprile, potrebbe essere ulteriormente prorogato, anche se il 16 dicembre scorso il ministro dell’ambiente on. Gian Luca Galletti, d’accordo con il Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ne ha già indicato il successore nel nome del dott.Tommaso Pellegrino, sindaco di Sassano e già parlamentare dei Verdi. L’ex Presidente e commissario in carica nella pienezza, quindi, dei suoi poteri ha provveduto, a prorogare per sei mesi (fino a settembre) nell’incarico di direttore il dott, Angelo De Vita, per un atto dovuto, al fine di assicurare la continuità della vita dell’Ente. La notizia lascia senza parole e cede il passo alla rabbia incontenibile, anche perché di fronte al silenzio totale della Politica in tutta l’articolazione della sua rappresentatività democratica del territorio: deputazione europea, nazionale, regionale, provinciale e sindaci, nessuno escluso, di fronte ad uno SCANDALO di tali proporzioni, che ferisce a morte la democrazia c’è un silenzio tanto inspiegabile quanto assordante. Invece bisognerebbe levare alta e forte la voce della protesta e, nel caso, e organizzare manifestazioni di popolo che reclama il rispetto dei suoi diritti, sanciti dalla forza delle leggi della democrazia.
Io, invece, nel modesto ruolo di intellettuale, che non intende e non vuole minimamente DIMETTERSI DA CITTADINO chiamo a raccolta gli abitanti della mia terra perché pretendano dai politici a cui hanno delegato la loro rappresentanza e, conseguentemente, la difesa dei loro diritti, di mantenere fede agli impegni assunti nelle varie competizioni elettorali. E lo faccio con le uniche armi a mia disposizione: le parole e le idee, che, se dette e professate con convinzione, hanno il potere di muovere il mondo
E, a tal proposito, pubblico. qui di seguito un articolo scritto per questo stesso settimanale del Cilento agli inizi di novembre del 2015, con le opportune modifiche imposte dagli ultimi eventi, ovviamente.
Molti ed autorevoli sociologi e politologi hanno fortemente sottolineato come, senza memoria del proprio passato, una società che si è materializzata in un Paese o in un territorio, storicamente non abbia futuro. Si tratta, a mio modesto avviso, di un richiamo quanto mai giusto ed attuale. Per tutti i territori, ma soprattutto per il Cilento, che vanta una storia prestigiosa oltre che testimonianze di arte uniche. Per non parlare di Beni Immateriali e paesaggistici, ricchi di fascino, gli uni, e di seduzione da Grande Bellezza, gli altri. Di qui la necessità del recupero e dell’esaltazione della memoria e del suo valore non tanto e non solo conoscitivo, ma soprattutto etico e civile. Cominciamo dalle pagine di storia, risorgimentale, su cui pure esiste una discreta bibliografia
Le tappe della storia risorgimentale Cilentana vanno dal 1799 al 1860 e trovano il loro spazio geografico nel Castello di Agropoli, dove Luisa Sanfelice vide sfiorire la sua giovinezza,nell’esilio e nell’isolamento forzato, a Sala Consilina, dove Giuseppe Garibaldi entrò accolto dall’entusiasmo della folla plaudente e da dove iniziò la sua marcia trionfale verso Napoli. Nei sessant’anni intercorsi tra i due eventi, il territorio fu scosso da rigurgiti rivoluzionari, che trovarono nel canonico Antonio De Luca (!828), in Costabile Carducci (1848) e in Carlo Pisacane (1857) i capi carismatici di riferimento. E non c’è contrada del Cilento che non vanti un eroe che diede il suo contributo di sangue per la libertà, come testimoniano lapidi e monumenti che danno nome a piazze e vie a perpetuarne la memoria.. Un motivo in più per esaltare questo glorioso vissuto storico collettivo, evitando, però, l’enfasi della retorica che è in agguato in ogni liturgia commemorativa, ma penetrando nel cuore degli eventi per capirne le motivazioni profonde che li animarono e cogliendone l’insegnamento, sempre attuale, di una eticità civile, di cui questa nostra società atea e senza valori ha più che mai bisogno.
Le rivoluzioni cilentane furono atti di “ribellismo” ideati, guidati e compiuti da minoranze illuminate, intellettuali e borghesi liberali, che non sempre seppero collegarsi con le masse popolari, per cui le forze reazionarie in agguato ebbero la meglio e le soffocarono nel sangue. Il baronaggio governava il territorio con tracotanza quasi sempre, con lungimiranza e liberalità raramente. Ed ebbe buon gioco ad additare ai contadini ed ai pastori incolpevoli i rivoluzionari come attentatori all’ordine costituito e, con la benedizione del clero più retrivo, come senzadio e nemici della morale. Il caso Pisacane ne è l’esempio più clamoroso. Quella sconfitta repressa nel sangue ha pesato molto sulla storia successiva del Cilento, costretto a subire le angherie dei potenti accettandone supinamente le direttive di sviluppo, che ubbidivano sempre a logiche di caste familiari e quasi mai a visioni di interesse collettivo. Chi non volle accettare scelse la strada dell’emigrazione e salpò per le lontane Americhe con la lancinante e malinconica nostalgia per i paesi nella gloria del sole sui cocuzzoli delle montagne, adagiati pigramente nelle piccole rade di mare o disseminati sui crinali delle colline tra vigneti, ficheti ed uliveti, che avevano assicurato pane stento nei difficili contratti a mezzadria con i “padroni”. Poi venne il fascismo e le cose peggiorarono con i baroni promossi podestà a cumulare potere politico ed economico. La guerra disseminò in un lungo e in largo per l’Europa e per il mondo i figli forti della nostra terra, che, inesperti e semianalfabeti, lasciarono la giovinezza sulle nevi della Russia o nei fondali del mare di Cefalonia, sognando negli occhi spauriti, i cimiteri assolati dei paesi che avevano lasciato con una fitta al cuore. Gli anni della ricostruzione all’insegna della libertà e della democrazia riconquistata vide il protagonismo attivo dei tanti che, riposto l’armamentario di fez, camicia nera e gigantografie del Duce, si riciclarono nelle nuove formazioni politiche e da podestà diventarono sindaci e, via via, deputati e senatori della Repubblica, dando straordinarie e disinvolte prove di trasformismo senza ideali. Fu il trionfo del gattopardismo. Una trasformazione di facciata, ma non di sostanza: far finta di cambiare tutto perché tutto restasse come prima.
E ai vecchi baroni di censo e di casata si sostituirono i nuovi baroni della politica, che esercitarono, questi ultimi, il potere rispettando le leggi della democrazia più nella forma che nella sostanza, privilegiando clientelismo e familismo con una maestria sottile e raffinata, mettendo a tacere le voci del dissenso e della critica, affossando le poche iniziative che dessero segno di riscatto e di emancipazione civile e morale nel segno della cultura. Nacque un nuovo baronaggio, quello politico appunto, e si sviluppò l’era dei cacicchi di partito, che ancora perdura, purtroppo, ed è bipartisan, di destra e di sinistra, apparentemente in conflitto ma sostanzialmente alleato per stroncare sul nascere le voci della protesta e bloccare le forze della democrazia vera.
Spetta ai giovani riscoprire ed esaltare questa storia ossificata nelle coscienze addormentate, denunziarne i risultati della mancata crescita culturale, civile ed economica,soprattutto per voltare pagina e non rassegnarsi e ripiegarsi su se stessi, sfiduciati. Il modo migliore è rileggere le pagine della nostra storia per esaltarne quelle gloriose e condannarne quelle buie, difenderne la memoria per non perdere l’identità, ma soprattutto guardare con fiducia al futuro, fecondando la speranza. Ma, quel che conta di più, è necessario ed indilazionabile mettere in cantiere una PROGETTUALITA’ di territorio, che riscopra e valorizzi le risorse, a partire da quelle culturali ed avendo come punti di riferimento i “comuni”, che sono laboratori e sentinelle di democrazia e dove, per fortuna, non mancano sindaci che operano nella correttezza e nella trasparenza, avendo come bussola di orientamento la crescita delle comunità amministrate nel segno della moralità privata e pubblica. Ma molti di loro si sono adagiati, purtroppo, a difendere l’esistente e non gonfiare di entusiasmo e speranza il proprio cuore e quello dei loro amministrati. Si registra in giro una sorta di stanchezza e demotivazione con la grave responsabilità di subire gli eventi più che governarli. Valga un esempio per tutti: la Vicenda Parco, che è uno SCANDALO a cielo aperto, con una “prorogatio” della “governance” (presidente e consiglio), che si reitera da due anni, o quasi. a questa parte di sei in sei mesi. Ed una Istituzione che avrebbe dovuto essere motore di sviluppo muore lentamente. Tacciono i deputati e senatori. Tace la deputazione regionale nel consociativismo della congiura bipartisan del silenzio; Tacciono i sindaci come se il Parco non fosse affare loro e, la cosa è ancor più stupefacente e singolare, hanno voce soltanto i cinghiali che grugniscono e, affamati, devastano coltivazioni e raccolti, animali domestici e greggi alla pastura brada e minacciano finanche pastori e contadini. E la politica viene meno ad uno dei tuoi doveri ineludibili: LA DIFESA DELLE COMUNITA’ che li hanno eletti. Governo nazionale, governatore della Campania (e questo stupisce non poco) che ne è del suo decisionismo? Si è omologato anche lui? Non voglio crederlo. Mi rifiuto finanche di pensarlo, per la stima e l’entusiasmo con cui ho sostenuto la sua elezione), deputazione nazionale e regionale, ma soprattutto sindaci. Il Cilento aspetta un atto di DISCONTINUITA’ con il passato, mettendo a tacere per sempre l’esercito dei tanti rappresentanti istituzionali che, a tutti i livelli, girano per i paesi portando a spasso le cariche, con tanto di fascia tricolore, gonfi di boria e ammalati di protagonismo stantio e un po’ patetico. Fossi nell’avvocato Troiano rifiuterei la ulteriore proroga. Cosi come, se fossi nel dottor Pellegrino, che non ho il piacere di conoscere, non accetterei la ulteriore dilazione della formalizzazione della nomina a Presidente e del conseguente insediamento. L’ulteriore ritardo sa tanto di umiliazione o, quanto meno di delegittimazione, che non è, certamente, un buon viatico per iniziare con il piede giusto. Ma è e resta solo un mio pensiero. E chiedo scusa all’uno e all’altro se ho osato esplicitarlo. Buon Lavoro!