di L.R.
In una recente riunione di clero, alla quale ero presente, tra i problemi affrontati, quello che ha occupato buona parte della discussione è stato: i sacerdoti, la loro drammatica esiguità numerica ed i problemi in prospettiva. A tal proposito, ormai si prevede una chiesa locale da affidare sempre di più ai laici. Attualmente, nella diocesi di Vallo solo un sacerdote ha meno di 30 anni e ben otto hanno superato gli ottanta, dati, questi, che fotografano la situazione. Il responsabile della pastorale vocazionale ha sollecitato ad impegnarsi, ma di fatto non ha colto il dato emerso dopo due ore d’interventi.
Un prete ha richiamato l’attenzione di tutti facendo partecipi della sua condizione esistenziale. Mi è sembrato di ascoltare il grido straziante di Giobbe che ha graffiato il cuore, mentre obbligava a pensare. Ad alta voce egli ha dichiarato la sua inanità: solo ed ammalato, alla ricerca di una parola, lui che per decenni si è segnalato per dinamicità d’azione e disponibilità a partecipare ai bisogni degli altri. La reazione è stata sconcertante, qualche giovane ha perfino abbozzato un risolino di sostanziale indifferenza, altri hanno cercato di consolare, i responsabili curiali hanno assicurato che stanno studiando la cosa!
Ho avuto così la conferma della sterile azione vocazionale di una chiesa locale che continua a non porsi l’assillante problema dei sacerdoti, i quali ad una certa età e dopo decenni di lavoro precipitano nella condizione di servi inutili, senza famiglia, obbligati ad arrangiarsi per conciliare il pranzo con la cena e non tanto per mancanza di risorse, quanto per assenza anche dei tre amici che cercavano, invano, di consolare Giobbe, afflitto dalla sfortuna. Intanto, se si leggono con attenzione i diari dei preti cilentani si desume che la loro presenza sovente per tanti ha fatto la differenza, almeno hanno conservato la memoria della condizione da cui siamo partiti, utile per ricostruire tappe, dinamiche e prospettive di una storia sociale nella quale siamo radicati.
Se non muta il modello di riferimento, evenienza auspicabile se è vero che i sacramenti sono per gli uomini e nessuno, nemmeno la gerarchia, ha il diritto di privare l’umanità di questo banchetto di grazia, la diocesi sarà caratterizzata da una progressiva laicizzazione della pastorale. In ogni caso, in tutti dovrebbe rimanere quanto meno un sentimento di riconoscenza per il ceto sacerdotale, la cui funzione socio-culturale, oltre che religiosa, non può essere misconosciuta. E’ una prospettiva che obbliga a dedicare un po’ di spazio non solo al clero, considerato come presbiterio diocesano, ma anche all’individualità di ciascun sacerdote. Stereotipi e proverbi popolari ne enumerano i difetti, mentre i vertici ecclesiastici, condizionati dalla logica dell’efficienza propria dell’ispettore, in genere li hanno considerati dei servi inutili e non nel senso della nota parabola evangelica, quanto per la concretezza di una situazione che ha visto prevalere la propensione ad interessarsi di loro solo fin quando sono stati capaci di conservare efficienza, hanno espletato una funzione ed hanno servito in un determinato settore. Quando età, salute, condizioni mentali ne hanno irrimediabilmente compromesso l’impiego, a questi – non sembri eccessivo il termine – rottami non è rimasto che tornare in famiglia, per chi aveva la fortuna di una casa con un po’ di calore, oppure precipitare in una angosciosa condizione di solitudine, aggravata dalla necessità di doversi arrangiare per risolvere i più elementari problemi quotidiani. Forse, se non l’interesse di superiori, i quali nell’attuale prassi sono presenti in diocesi fino ad una certa età e poi ritornano – più o meno emeriti – dove son venuti, almeno dal popolo può essere sollecitata, se non riconoscenza, almeno comprensione.
Come reagiscono in genere i preti, soprattutto quelli rottamati, a questa condizione? Gli ingenui non si pongono il problema; tanti illusi sono impegnati a fare i conti con una realtà diversissima da come hanno immaginato ed auspicato che sarebbe stata prestando fede alle promesse udite quando erano giovani. I cinici non si pongono interrogativi abituati ad affrontare con pragmatismo qualsiasi situazione senza disinganni. I fatalisti continuano l’esistenza nella quale sono vissuti senza effettivamente condurla da protagonisti. I “golgotiani” trovano nella salita del loro monte la ragione per una risposta a dolorosi interrogativi. La fila s’assottiglia quando si considerano i coerenti con le scelte fatte e i sereni, che intravedono il centuplo anche in questa vita e fanno trasparire occhi gioiosi perché, guardandosi alle spalle, non temono di tirare le somme e fare il bilancio.
Una storia della chiesa locale nell’ultimo secolo, capace di coniugare gli aspetti più significativi di una scansione che parta dalla componente gerarchica per poi soffermarsi sulle dinamiche concrete del quotidiano scandito dal clero e dal popolo di Dio, può costituire la giusta cornice per capire il grido di Giobbe di tanti preti anziani e interrogarsi sulle cause cercando una soluzione di breve e medio periodo. Non lo esige solo l’urgenza dell’annuncio evangelico, ma anche il bisogno di un atto di giustizia nei confronti di un ceto che per anni si è trovato spesso a vivere una dolorosa e lacerante relazione con un vertice, imposto dall’esterno, non sempre consapevole dei problemi o disposto a risolverli.