“10 febbraio“ – “Per Amor di Patria!”
“L’orrore delle foibe colpisce le nostre coscienze, dichiara il Capo dello Stato, Sergio Mattarella.. Le sofferenze, i lutti, lo sradicamento, l’esodo a cui furono costrette decine di migliaia di famiglie nelle aree del confine orientale, dell’Istria, di Fiume, delle coste dalmate, sono iscritti con segno indelebile nella storia della tragedia della Seconda Guerra Mondiale e delle sue conseguenze”. Per celebrare il Giorno del Ricordo la XII Edizione del Concorso nazionale 10 febbraio. “… Il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità…” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani 1948)
Concorso nazionale “10 febbraio“ – “Per Amor di Patria!”. La Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionale di istruzione e le Associazioni degli Esuli Istriani, Fiumani e Dalmati, nell’ambito delle iniziative del Gruppo di lavoro appositamente costituito, bandiscono la dodicesima edizione del concorso nazionale destinato alle scuole primarie, secondarie di I grado e secondarie di II grado, statali e paritarie italiane, degli Stati esteri dove è previsto e attuato l’insegnamento in lingua italiana ed alle Scuole italiane all’estero. Il concorso è volto a promuovere l’educazione alla cittadinanza europea e alla storia italiana attraverso la conoscenza e l’approfondimento dei rapporti storici e culturali nell’area dell’Adriatico orientale. La scadenza per la presentazione dei lavori è fissata a venerdì 14 gennaio 2022. “Le vicende del confine nordorientale dell’Italia, dove convivono comunità di lingua e cultura italiana e altre di lingua e cultura slovena e croata, si sviluppano in una dimensione di complessità a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando il nascere dei nazionalismi introduce elementi di contrasto destinati ad acuirsi con la Grande Guerra, con la nascita del regno di Jugoslavia, con l’affermarsi del fascismo e della sua politica di italianizzazione forzata. Su questo retroterra si inseriscono le esasperazioni del 1940-45, prima con l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia nel 1941, poi con l’affermazione del movimento nazionalcomunista del maresciallo Josip Broz “Tito”, quindi con le repressioni brutali dell’immediato dopoguerra che colpiscono la comunità italiana e che sono note come “foibe” dal nome delle fosse carsiche nelle quali viene gettata la maggior parte delle vittime. Nel momento in cui la situazione si stabilizza lungo la linea di confine definita il 12 giugno 1945 dalla cosiddetta linea Morgan (che corrisponde quasi interamente al confine attuale tra Italia e Slovenia), dai territori dalmati, fiumani e istriani passati sotto il controllo jugoslavo inizia un esodo forzato, che coinvolge centinaia di migliaia di cittadini italiani. La questione dei rapporti tra questa comunità (in molti luoghi maggioritaria) e quella slava viene affrontata dal governo di Belgrado con ambiguità e durezza, dividendo la popolazione italiana in due grandi categorie: da un lato coloro che sono favorevoli al comunismo e che perciò sono considerati “sinceri antifascisti”, dall’altro i “nemici del popolo”, bersaglio d’elezione per ondate repressive dipendenti dalle contingenze più diverse. Entro questo quadro, la politica jugoslava procede destabilizzante: apertura nei confronti degli pochi italiani giudicati “buoni e onesti” e repressione etnica, integrazione degli elementi affidabili e marginalizzazione generalizzata, dichiarazioni di fratellanza ed esclusione preconcetta si alternano tra loro nel disegnare un’atmosfera tesa, che genera nella comunità italiana un senso diffuso di precarietà e di diffidenza e che finisce con il precludere una prospettiva per il futuro. La conseguenza di queste spinte contrastanti da parte dei nuovi poteri, unite alla memoria delle settimane di terrore per gli infoibamenti, provoca il disfacimento della comunità italiana e l’allontanamento dalla Venezia Giulia della maggioranza dei suoi membri. Le tappe e le modalità si differenziano da zona a zona, tra accelerazioni improvvise, periodi di tensione sotterranea e momenti brevi di relativa stasi. Si tratta quasi sempre di partenze individuali, famiglie che chiudono le proprie case e raggiungono il confine caricando ciò che possono sui camion o sui carri; c’è chi attraversa il mare in barca; c’è chi si muove a piedi, raccogliendo il proprio mondo in vecchie valigie chiuse con lo spago. Poco a poco, i villaggi istriani si spopolano e il territorio cambia la sua composizione sociale, economica, etnica. Iniziato nel 1945 e continuato sino alla fine degli anni Cinquanta, l’esodo ha riguardato oltre 300mila persone, la grande maggioranza della comunità italiana dell’Istria. Giunti in Italia (un Paese che esce a sua volta prostrato dalla guerra, con le città segnate dal peso dei bombardamenti e l’economia da rifondare), i profughi vengono sparpagliati in 109 campi (caserme dismesse, baraccamenti, ex campi di prigionia, colonie agricole) dove vivono per anni nella precarietà e nell’emergenza, spesso oggetto delle diffidenze che sempre accompagnano i fenomeni migratori: è l’esperienza di chi raggiunge Roma e trova sistemazione nel “Villaggio operaio” utilizzato dalle maestranze che hanno costruito l’Eur, di chi a Fertilia (vicino ad Alghero) inventa una città in riva al mare, di chi si ammucchia a Tortona nella caserma”Passalacqua”, di chi va a cercare la normalità nelle Casermette di Borgo San Paolo a Torino. Per i profughi di prima generazione, quelli che hanno lasciato l’Istria già adulti, è un’esperienza che segna una frattura nella propria vita. Il profugo non è un migrante, che fugge dalla miseria o dalla guerra ma fa una scommessa sul futuro e sogna di tornare un giorno in patria con il vestito buono e le scarpe lucide per dimostrare che “ce l’ha fatta”; il profugo è un cittadino normale, con una casa, un lavoro, un passato, un sistema di relazioni, e che all’improvviso deve abbandonare tutto travolto dalle ragioni della “grande storia”. “Come vorrei essere un albero, che sa dove è nato e dove morirà” canta Sergio Endrigo, ricordando la vicenda della sua famiglia, profuga da Pola nel 1947. Ripercorrere questa drammatica esperienza, inquadrandola nello scenario storico in cui si è sviluppata, significa proporre ai giovani un approfondimento di ricerca e di riflessione che coniuga il passato con il presente: il tema dei profughi, che da anni costituisce un’emergenza della nostra società globalizzata (i profughi dalla Siria, dalla Libia, dall’Afghanistan, per limitarci ai casi più noti), è stato anche un tema della nostra storia nazionale, in un contesto in cui i diritti umani sono stati violati, le logiche della politica interna e internazionale si sono sovrapposte alle ragioni degli individui, il senso di solidarietà e di giustizia è stato messo a dura prova. Le vicende del confine nordorientale, inoltre, costituiscono un osservatorio per capire come sia possibile, con il passare del tempo, individuare una strada per ricucire le ferite e procedere verso la costruzione di memorie che si riconoscono reciprocamente e si legittimano l’un l’altra: nel 2020 i presidenti italiano Sergio Mattarella e sloveno Borut Pahor sono andati a Trieste, tenendosi significativamente per mano, a deporre corone d’alloro di fronte alla foiba di Basovizza, simbolo delle violenze jugoslave, e di fronte al monumento che ricorda le vittime slovene del fascismo. “Le sofferenze patite non possono essere negate – sono parole del presidente Mattarella – Il futuro è affidato alla capacità di evitare che il dolore si trasformi in risentimento e questo in odio, tale da impedire alle nuove generazioni di ricostruire una convivenza fatta di rispetto reciproco e di collaborazione”. In questo senso, la ricerca/riflessione proposta dal concorso si inserisce a pieno titolo nella prospettiva aperta dall’introduzione dell’Educazione Civica tra le discipline della scuola secondaria di primo e secondo grado, “cogliendo il nesso esistente tra il paradigma universale dei diritti umani, la nostra Costituzione e l’esercizio della cittadinanza attiva e responsabile” (Stradiotto 2011)”. Il Giorno del Ricordo è voluto il 10 febbraio. Celebrazione nata il 2004, necessaria per ravvivare il ricordo delle vittime dei massacri delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Al ricordo dell’Olocausto si accosta il bisogno di fare memoria delle violenze e delle uccisioni avvenute in Istria, Fiume e Dalmazia tra il 1943 e il 1947. La legge n.92 il 30 marzo 2004 ha ufficializzato questo momento in questa data, il 10 febbraio, poichè nello stesso giorno, nel 1947, furono firmati i trattati di Pace a Parigi con i quali si assegnavano l’Istria, Quarnaro, Zara e parte del territorio del Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “L’orrore delle foibe colpisce le nostre coscienze. Le sofferenze, i lutti, lo sradicamento, l’esodo a cui furono costrette decine di migliaia di famiglie nelle aree del confine orientale, dell’Istria, di Fiume, delle coste dalmate, sono iscritti con segno indelebile nella storia della tragedia della Seconda Guerra Mondiale e delle sue conseguenze. Desidero anzitutto rinnovare ai familiari delle vittime, ai sopravvissuti, agli esuli e ai loro discendenti il senso forte della solidarietà e della fraternità di tutti gli italiani. I crimini contro l’umanità scatenati in quel conflitto non si esaurirono con la liberazione dal nazifascismo, ma proseguirono nella persecuzione e nelle violenze, perpetrate da un altro regime autoritario, quello comunista. Tanto sangue innocente bagnò quelle terre. L’orrore delle foibe colpisce le nostre coscienze. Il dolore che provocò e accompagnò l’esodo delle comunità italiane giuliano-dalmate e istriane, tardò ad essere fatto proprio dalla coscienza della Repubblica. Prezioso è stato il contributo delle associazioni degli esuli per riportare alla luce vicende storiche oscurate o dimenticate, e contribuire così a quella ricostruzione della memoria che resta condizione per affermare pienamente i valori di libertà, democrazia, pace”.
Emilio La Greca Romano